PRIMO PIANO

18/06/2025
La ‘distruzione creatrice’
La ‘distruzione creatrice’ un concetto, reso celebre dall’economista e politico (fu anche Ministro delle Finanze) austriaco Joseph Schumpeter negli anni ’940, descrive il processo attraverso il quale vecchie idee, tecnologie e imprese
La ‘distruzione creatrice’ un concetto, reso celebre dall’economista e politico (fu anche Ministro delle Finanze) austriaco Joseph Schumpeter negli anni ’940, descrive il processo attraverso il quale vecchie idee, tecnologie e imprese vengono sostituite da nuove. Pertanto se la creazione è il motore principale della crescita economica, la distruzione ne è il male necessario. Insieme, permettono di riallocare persone, capitali e risorse in modo più efficiente all’interno di un sistema economico. Ma esiste una terza forza che frena entrambe: la conservazione. Schumpeter vedeva il capitalismo in senso dinamico, ovvero come un sovvertitore dell'ordine costituito attraverso l'innovazione tecnologica. Quest’ultima crea nuovi metodi di produzione e nuovi beni, mantenendo elevato il saggio di profitto e impedendo lo scivolamento verso una società monopolista e della
rendita. Questo però vuol anche dire che i vecchi metodi di produzione ed i vecchi beni diventano inattuali e vanno semplicemente sostituiti.
Da qui il concetto di distruzione creatrice richiamato all’inizio. Ed il capitalismo funziona esattamente così. Ma la cancellazione di metodi produttivi e beni crea veri e propri sconfitti nella società. Sconfitti che non saranno certamente ben disposti né verso i nuovi metodi produttivi, né verso i nuovi beni, né infine verso il capitalismo. E questo spinge i Governanti ad orientarsi verso la conservazione che intrappola i sistemi economici nello stato stazionario. Possiamo definire equilibrio macroeconomico di medio periodo (di stato stazionario) una realtà nella quale le variabili chiave del settore
economico di uno Stato (crescita del Pil, occupazione, disoccupazione, disavanzo di bilancio, debito pubblico, bilancia dei pagamenti, inflazione e tassi di interesse per citarne le principali) tendono a rimanere ancorate ad un certo livello per un periodo medio-lungo (diciamo almeno tre-cinque anni). Un siffatto equilibrio tende a perpetrarsi se non intervengono degli shock dal lato della domanda e dell’offerta (o da entrambi) o di natura tecnologica che vanno a modificare le variabili chiave ricordate all’inizio. Creazione,
distruzione e conservazione sono tre motori che trainano o frenano i sistemi economici in una continua ricerca di un equilibrio. Negli ultimi tempi viste le scelte degli elettori la distruzione creatrice è messa in discussione nel mondo occidentale. A certificarlo sono alcuni indicatori del dinamismo economico nelle economie avanzate che mostrano un indebolimento progressivo. Negli USA i processi nascita-morte delle imprese sono in attenuazione dagli anni ‘970. Parimenti il tasso di riallocazione occupazionale — che misura la velocità con cui i posti di lavoro vengono creati e distrutti — è sceso negli ultimi decenni. Nel vecchio continente, forse meno sorprendentemente, le tendenze sono simili. Cosa sta contribuendo al declino della distruzione creatrice? L’esistenza di incentivi economici, politici e sociali a mantenere lo status quo. Queste forze conservative bloccano la nascita di nuove idee e aziende — e proteggono quelle improduttive. Prendiamo le imprese consolidate nei paesi avanzati. Con il tempo sono diventate sempre più dominanti. Oggi le prime dieci aziende quotate in borsa negli Stati Uniti rappresentano circa un terzo della capitalizzazione totale dell’indice Standard & Poors 500: la concentrazione più alta da decenni. In Europa, la quota di mercato media detenuta dalle prime quattro aziende in ciascun settore, considerando i primi quindici paesi, è aumentata di cinque punti percentuali tra il 2000 e il 2019, secondo
un’analisi dell’OCSE. Alcuni economisti ritengono che globalizzazione e tecnologia che favoriscono le economie di scala, siano in parte responsabili dell’ascesa dei colossi aziendali. Ma le dimensioni, come intuito tra gli altri da Paolo Sylos Labini e William Baumol, possono anche creare barriere all’ingresso, poiché i potenziali nuovi entranti esitano a confrontarsi in settori dominati da giganti. Con una quota maggiore di inventori statunitensi che lavora in grandi imprese mature. Così facendo gli inventori delle start-up passano alle aziende consolidate, dove i salari sono cresciuti negli
ultimi decenni ma così facendo, finiscono per contribuire meno all’innovazione. Il vero problema nasce quando le grandi imprese smettono di puntare sull’innovazione e adottano strategie difensive. E infatti non mancano esempi di azioni dirette da parte delle aziende dominanti per conservare la propria quota di mercato: attraverso acquisizioni di start-up, brevetti difensivi, reclutamento aggressivo di talenti e influenza politica. Anche le politiche adottate dai Governi, in un’ottica di breve periodo, funge da forza conservatrice. Negli ultimi dieci anni, dazi e barriere non tariffarie sono aumentati a livello globale, in parte come risposta alla reazione politica contro la concorrenza estera percepita come minaccia per l’occupazione. Il protezionismo alimenta modelli di business fallimentari. Il risultato è che i potenziali innovatori esitano, gli incumbent di Baumol rimandano l’innovazione, e i capitali che dovrebbero finanziare le scoperte di domani finiscono per essere impiegati nei fallimenti di ieri. Nel
contempo i limiti agli investimenti esteri e all’immigrazione ostacolano la circolazione di nuove idee. Le recenti crisi: dalla Grande Recessione (2008-2013) alla pandemia (2020), passando per lo shock energetico in Europa (2022), hanno innescato interventi pubblici massicci: sussidi, prestiti, e garanzie. Ma la difficoltà nel calibrare le misure ha fatto sì che anche imprese non meritevoli o non sostenibili ricevessero gli aiuti. Oltre a queste emergenze, s’è normalizzata una sorta di cultura del salvataggio: lo testimonia il fatto che negli ultimi anni, i sussidi sono aumentati, nell’ambito di
un ritorno alle strategie industriali guidate dallo Stato. L’era dei tassi d’interesse bassi e dell’allentamento quantitativo (quantitative easing), seguita alla crisi finanziaria, ha mantenuto in vita anche imprese poco produttive (imprese zombie). E sebbene oggi il costo del credito sia aumentato, la liquidità accumulata in quel periodo consente ancora a molte aziende fragili di accedere a finanziamenti a lungo termine a buon mercato. Lo testimonia negli USA la percentuale di aziende in perdita rappresentate nell’indice Russell 2000 (che raccoglie le piccole capitalizzazioni) che è passata dal 15% al 40% negli ultimi 30 anni. Infine, anche i fattori sociali possono minare la distruzione creatrice. Per individui e aziende, il successo
economico genera una naturale propensione a difenderlo. Questo si riflette nel fenomeno del Nimby (va bene ma non nel mio cortile), nei gruppi di interesse che si oppongono a nuove tecnologie nei loro settori e spingono per regolamentazioni che favoriscono i vecchi attori. Ironia della sorte, proprio il successo della distruzione creatrice era il motivo per il quale Schumpeter pensava che il capitalismo non sarebbe sopravvissuto a lungo. Credeva che la prosperità generata avrebbe innescato una domanda crescente di sicurezza e stabilità, minando la disponibilità della società a sopportare ulteriori perdite di lavoro e disagi. Oggi, nelle economie ricche, dominate dal concetto errato di ‘economia a somma zero’ (valido però per un sistema economico che ha una produttività stagnante: nel quale un aumento dei guadagni di un soggetto, deve provenire per forza di cose a scapito dei guadagni di qualcun altro) si intravedono segnali di questa dinamica. Ma ciò non significa che la distruzione creatrice sia destinata a fallire. L’Intelligenza Artificiale (IA) sta già provocando sconvolgimenti. Tassi d’interesse più elevati potrebbero spazzare via le aziende zombie. E le forze conservatrici non sono sempre nemiche della crescita. A volte sono necessarie. Tuttavia, emergono alcuni principi guida per la politica pubblica che dovrebbe alimentare la distruzione creatrice trovando una quadra tra efficienza ed equità. Per esempio, proteggendo le persone e non i posti di lavoro, così che possano riqualificarsi e affrontare il cambiamento. Questo dovrebbe affiancarsi a misure per abbassare le barriere alla concorrenza, rafforzare le leggi antitrust, ridurre il protezionismo e controllare le attività di lobbying. I futuri salvataggi dovrebbero essere più selettivi e meno indiscriminati. Per imprese, lavoratori e Governi, lo status quo che genera uno stato stazionario può sembrare a prima vista rassicurante.
Ma col tempo può erodere i progressi. Se la lenta avanzata delle forze conservatrici non viene arginata — e le politiche non si evolvono per
accogliere il cambiamento — le economie avanzate rischiano di scambiare un benessere di breve periodo (di stato stazionario) con una stagnazione di lungo termine.

|