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27/11/2023
I rischi della 'dollarizzazione' in Argentina
L’aumento della quotazione del dollaro e la forte crescita della produttività degli Stati Uniti hanno favorito l’apprezzamento del tasso di cambio reale.

Il Sudamerica affetto da inflazione aperta, galoppante ed in casi limite da iperinflazione è un continente che si presta ad esperimenti di politica economica. Le due ricette più utilizzate per stabilizzare l’aumento dei prezzi sono la ‘dollarizzazione’ ed il ‘currency board’. Da ultimo il Presidente dell’Argentina appena eletto Javier Milei in campagna elettorale ha promesso ai suoi elettori la dollarizzazione dell’economia per porre fine ad una inflazione che supera abbondantemente il 100%. Cerchiamo di vedere quali sono i rischi dell’operazione paragonandola anche alla passata esperienza del piano di convertibilità congegnato con un currency board, durato dieci anni e abbandonato con la crisi del gennaio 2002. Il rischio della dollarizzazione è che tende ad essere adottata da nazioni che soffrono di scarsità di dollari causata da carenze strutturali legate alla competitività. In questo caso quello che comporta la dollarizzazione è il repentino aumento della domanda interna di dollari (poiché vengono utilizzati per una serie di scopi, oltre al tradizionale pagamento delle importazioni), mentre non fa nulla per aumentarne l’offerta. In condizioni di piena dollarizzazione, il livello della domanda di dollari sarebbe uguale a quello in regime di convertibilità. In un regime totalmente dollarizzato l’economia del paese che l’ha adottato ha bisogno della stessa quantità di dollari come circolante o per sostenere la valuta nazionale e per integrare le riserve bancarie in pesos. L’Argentina è riuscita a mantenere il tasso di cambio fisso, parte del Piano di Convertibilità, per più di 10 anni fondamentalmente perché i mercati finanziari internazionali ed il Fondo Monetario Internazionale (FMI) erano disposti a finanziare il crescente deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti generato dalla rivalutazione del pesos (dovuta a quella del dollaro). Nel caso dell’Ecuador, altro paese sudamericano che si è dollarizzato, i mercati finanziari internazionali hanno svolto, invece, un ruolo insignificante. Il conto corrente della bilancia dei pagamenti in Ecuador, infatti, è in surplus per le cospicue rimesse inviate dagli immigrati. In altre parole, l’Ecuador è sempre più dipendente dalle esportazioni del suo abbondante fattore di produzione, vale a dire la manodopera. Ma questa è una base fragile per costruire il progresso economico e sociale di un paese.

Nel caso dell'Argentina: nel 1991 fu adottato un tasso di cambio fisso che ancorava il pesos al dollaro statunitense. Noto come regime di convertibilità, l'ancoraggio fisso uno a uno fu progettato per vincolare la politica monetaria, creando credibilità monetaria attraverso l'utilizzo del tasso di cambio come un àncora nominale per l'inflazione. Il successo del regime di convertibilità nel domare l’inflazione è stato opportuno e nel contempo drammatico. Assodato che le caratteristiche della riforma monetaria da cui la convertibilità trasse il suo impressionante successo nel domare l’inflazione furono esattamente le stesse che alla fine la portarono al collasso. Il dollaro statunitense si è apprezzato nel corso degli anni '990, il che ha implicato un apprezzamento del peso, riducendo la competitività dell'Argentina sui mercati di esportazione. L’aumento della quotazione del dollaro e la forte crescita della produttività degli Stati Uniti hanno favorito l’apprezzamento del tasso di cambio reale dell’Argentina, che era sopravvalutato fin dall’inizio del regime di convertibilità. Questa tendenza del cambio reale spiega lo squilibrio esterno cronico negli anni '990, durante i quali l'Argentina presentava consistenti deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti alimentati anche dai deficit di bilancio. Sebbene il Governo argentino fosse stato in grado di generare avanzi fiscali primari per gran parte degli anni '990, considerata la spesa per interessi, il saldo fiscale complessivo registrava dei deficit che vennero in parte mascherati dalle entrate straordinarie derivanti dalle privatizzazioni. Questi pagamenti di interessi col tempo divennero la spesa principale ed un problema per il paese sudamericano. I deficit gemelli hanno messo in luce una trappola del debito che, unita alla natura del regime del tasso di cambio, ha rivelato una dipendenza insostenibile dall’afflusso dei capitali stranieri, che alla fine avrebbe portato all’esplosione del debito ed al collasso del regime del tasso di cambio. Lo squilibrio esterno e la tendenza strutturale complessiva all’accumulo di debito sono stati aggravati da una serie di shock esterni che hanno colpito l’economia a partire dalla fine degli anni ’990 e che erano dovuti alla volatilità dei mercati finanziari globali.

Nel 1999 va aggiunto che il Brasile fu costretto a svalutare la propria valuta e considerato che era sia un partner commerciale che un concorrente sui mercati di sbocco europei, la svalutazione rappresentò un deterioramento della competitività dell’Argentina, aggravando la tendenza verso i deficit delle partite correnti. In presenza di un tasso di cambio nominale fisso, l’aggiustamento cominciò a prendere la forma di una recessione economica: col tasso di crescita del Pil che diminuì dall'8,1% al 3,9% nel 1998 e che nel 1999 toccò il - 3,4%. L'ondata di shock esterni che hanno colpito l'economia argentina alla fine degli anni '90 ha creato pressioni sulla sostenibilità dell'economia. Questo perché hanno allargato gli squilibri esterni, ma nel contempo hanno generato un deterioramento endogeno della sostenibilità fiscale. La dipendenza dai capitali stranieri necessari per far fronte ai deficit gemelli in difesa dell’ancoraggio col dollaro, imponeva che gli afflussi di capitale fossero continuati anche in un momento nel quale i mercati dei capitali si stavano restringendo e l’equilibrio interno dell’Argentina si stava deteriorando. Queste condizioni e l’aumento del premio per il rischio hanno reso necessario un aumento dei tassi di interesse e una contrazione della politica fiscale nella speranza di compensare i timori degli investitori stranieri riguardo lo Stato dell’economia e di attirare adeguati flussi di capitale. L'iniziale riduzione dei flussi di capitale nel 1998 si è trasformata in un'inversione nel 2000. Durante questo lasso di tempo la Banca Centrale argentina è stata costretta a intervenire in difesa della valuta. Mentre i mercati internazionali dei capitali si contraevano, parimenti ad un deterioramento endogeno dei fondamentali dell’economia argentina, anche la politica monetaria fu costretta ad assumere un atteggiamento restrittivo. La continua fuga di capitali per tutto il dicembre 2001 costrinse il Congresso ad emanare nel gennaio 2002 la legge sull'emergenza pubblica che pose fine al regime di convertibilità. Poco dopo il tasso di cambio si deprezzò di oltre il 236% rispetto al dollaro e l’esperimento della convertibilità giunse al capolinea.

Massimo Ricciardi

 




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