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30/10/2023
Papa Francesco: “La guerra è una sconfitta. Fermatevi”
L’Europa che ha nel Mediterraneo il suo bacino di civiltà deve assolutamente ritrovare una sua soggettività politica poiché, ancora una volta, potrebbe pagare prezzi alti da un conflitto allargato.

La più volte rinviata operazione di terra dentro la striscia di Gaza è iniziata, se pur con la necessaria gradualità. Israele, nonostante i “consigli” di Biden, i proclami e gli “avvertimenti” dei paesi arabi e dell’Iran, ha deciso che tale azione, volta ad annientare Hamas, sia l’unica scelta possibile, nonostante che essa comporti i rischi ed i conseguenti sacrifici di una guerriglia urbana, in funzione di un obbiettivo che i soli martellanti bombardamenti, probabilmente, non riuscirebbero a raggiungere. Questa prima evidenza dimostra e conferma come sia in gioco, dopo l’azione terrorista del 7 ottobre, la sopravvivenza stessa dello Stato ebraico. L’azione militare estrema in corso non rappresenta l’ennesima, se pur più decisa rappresaglia per le violenze subite, come già accaduto più volte in passato, ma esprime il culmine della sfida in corso da decenni tra “l’essere e il non essere” di Israele. Ed è per questa reale posta in gioco che Gerusalemme non tiene conto di alcuni elementi negativi che accompagnano la sua azione, a partire dalla sensazione di una certa solitudine, evidenziata dal voto dell’Onu che ha chiesto una immediata tregua umanitaria a Gaza che suona come un alt alla sua azione militare e dalle stesse dichiarazioni del Segretario Generale che, ancorché spiegate meglio, erano apparse come comprensive verso l’azione di Hamas. Senza contare le manifestazioni di piazza in tutto il mondo contro le uccisioni civili a Gaza. La perentorietà della scelta strategica di Israele sembra rimuovere anche la tragica questione degli oltre 200 ostaggi nelle mani di Hamas. “Siamo in guerra contro il male” ha ripetuto più volte Netanyahu – intendendone sottolineare la forza distruttiva – e, di conseguenza, di fronte al male non si tratta. E’ la storia tragica, per i civili, delle guerre che debbono finire con una “resa senza condizioni”.

Del resto, la contropartita richiesta di liberare gli oltre 6 mila detenuti nelle prigioni di Israele, rinsanguerebbe il fronte terrorista che, per contro, va distrutto per la sopravvivenza degli ebrei. Lo stazio dei parenti degli ostaggi può attendere gli eventi militari, qualsiasi esito possano avere per gli uomini, le donne e i bambini rapiti. L’opinione pubblica mondiale e la valutazione di molti Stati sugli avvenimenti in corso sfuggono alla primaria considerazione di questo dato di “sopravvivenza” che, invece, rappresenta la chiave per analizzare gli avvenimenti in corso e soprattutto il senso della reazione di Israele. Peter Frankopan, professore di storia globale a Oxford, in una intervista al Corsera del 28 ottobre, argomenta con originalità ed efficacia un paragone tra l’azione terrorista di Hamas del 7 ottobre e l’attentato di Sarajevo del 1914, nella situazione in Europa alla vigilia della prima guerra mondiale. L’uccisone dell’Arciduca Francesco Ferdinando, afferma lo storico, “accese una legna che aspettava solo una scintilla per incendiarsi”, così come il 7 ottobre ha “allontanato la soluzione dei due stati” ed ha “drammaticamente alterato l’equilibrio del Medio Oriente”, con conseguenza non prevedibili. Quel colpo di pistola intendeva uccidere l’impero austro-ungarico, proprio come i terroristi di Hamas hanno inteso avviare una guerra che annulli la condizione di esistenza dello Stato ebraico. Tutto ciò mentre, con gli “accordi di Abramo”, si era riavviato un percorso diplomatico con una parte importante del mondo arabo. Gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein avevano, recentemente, stabilito piene relazioni diplomatiche con Gerusalemme, mentre Arabia Saudita e Oman ne intrattenevano rapporti informali, distanti Qatar e Kuwait, ma non in esplicita ostilità. Il senso di questo “avvicinamento” ipotizzava un ridisegno degli equilibri regionali che si era andato delineando dopo gli accordi di Oslo del 1993 quando il Consiglio di Cooperazione del Golfo permise allo stato ebraico di aprire uffici commerciali in Oman e Quatar e Dubai iniziò a intessere legami commerciali con compagnie israeliane, mentre nel 2001 i sauditi si fecero promotori con l’Arab Peace Initiative del pieno riconoscimento di Israele da parte dei paesi arabi in cambio di un ritorno ai confini del 1967.

Aveva giocato a favore di questa importante evoluzione politica la preoccupazione diffusa della corsa iraniana verso l’obiettivo di dotarsi dello strumento militare nucleare, ipotesi che avrebbe trovato conferma in un report di marzo del 2023 dell’Agenzia internazionale per l’Energia Atomica che riferiva del ritrovamento di tracce di uranio arricchito all’83,75 pericolosamente vicino alla soglia del 90%, utile per produrre armi nucleari. In buona sostanza, l’azione terrorista di Hamas e la prevista risposta di Israele, posta di fronte alla sua stessa sopravvivenza, non possono che avere l’effetto di congelare questo processo di stabilizzazione dell’area mediorientale, che rappresenterebbe la condizione indispensabile per la sicurezza di Israele e per la conseguente possibilità di dar vita a quella che ancora costituirebbe l’ipotesi più valida e cioè la costruzione di due stati autonomi e pacificamente conviventi. Tuttavia il lungo tempo e il declino dell’autorità nazionale palestinese hanno in parte compromesso questo orizzonte progettuale. La Cisgiordania che avrebbe dovuto rappresentare la regione sulla quale edificare lo Stato palestinese è una regione, come l’ha definita più volte Limes, a “coriandoli”. Come ha scritto l’inviata di Avvenire Lucia Capuzzi, in una interessante corrispondenza del 26 ottobre: “La radice dell’ebollizione dei territori è, secondo gran parte degli analisti e le stesse Nazioni Unite, la mancata implementazione degli accordi di Oslo. Trent’anni dopo, la promessa di uno Stato palestinese è rimasta sulla carta. Al suo posto c’è un puzzle di villaggi e città palestinesi e insediamenti israeliani - illegali in base al diritto internazionale perché edificati in terra occupata dopo la guerra dei sei giorni -, a qualche centinaio di metri l’uno dagli altri”. La giornalista del quotidiano della Cei descrive una situazione che richiama la responsabilità a Israele: ”nei Territori vivono ormai 400 mila ebrei e 2,4 milioni di palestinesi. Già nel 1998 l’allora ministro degli Esteri Ariel Sharon aveva esortato gli israeliani ‘a correre sulle colline perché tutto quello che prenderemo resterà nostro’”. La giornalista aggiunge: “in sei mesi il governo israeliano di destra ha approvato la costruzione di 13 mila nuove abitazioni in Cisgiordania, il record dal 2012”.

Ovviamente tutto ciò comporta controlli e insediamenti militari, percorsi obbligati a cui vengono sottoposti i palestinesi, producendo una netta riduzione del ruolo politico istituzionale dell’Autorità Nazionale Palestinese. E ciò lascia spazio ad Hamas, oltre la lingua di Gaza: dal 7 ottobre nelle terre a ovest del Giordano ci sono 5 morti palestinesi al giorno in conflitti con i militari di Gerusalemme. Da anni la situazione è andata configurandosi di fatto verso la realizzazione del Grande Israele. Sin dall’inizio degli anni 2000, nonostante le sollecitazioni internazionali, la soluzione prevista dagli accordi di Oslo ha mostrato le difficoltà di attuazione. L’autorevole storico britannico della sinistra radicale, Tony Judt, già nel 2003, fece scalpore perché, in un lungo saggio pubblicato sulla rivista New York Review of Book, propose di abbandonare la soluzione “due stati due popoli”. Infatti il progetto avrebbe comportato un costosissimo trasferimento di coloni, quantomeno delle migliaia più ideologizzati e un difficile avvicendamento - “terra in cambio di terra” - con il rischio di determinare una guerra civile all’interno delle stesse popolazioni israeliane. Recentemente Donatella Di Cesare, docente della Sapienza, autorevole opinionista pro Israele, ha spiegato i caratteri che dovrebbe avere l’unico Stato, quelli di una “cittadinanza aperta”, a cui però ha risposto l’editorialista del New York Times Tom Friedman, chiudendo l’intervista al Corsera del 15 ottobre: “Se questi popoli non possono vivere uno accanto all’altro in due stati, come si può pensare che possano farlo in uno solo?”. Pur difficile la soluzione del doppio stato non è impossibile, soprattutto non ha alternative e la sconfitta di Hamas – il terrorismo, come ha affermato Galli Della Loggia non vince mai - potrebbe riaprirne la prospettiva. In conclusione. A fronte dell’alto prezzo che la questione israelo-palestinese sta presentando in termini di sviluppo del terrorismo, di indiscriminata strage delle popolazioni civili, di rischi di allargamento del conflitto, di enormi difficoltà a trovare soluzioni politiche adeguate, di lacerazione della comunità internazionale, occorre non rassegnarsi alle sole tragedie del presente, ritenendo tutto ciò che sta avvenendo come ineluttabile e immodificabile.

La coscienza e la responsabilità non deve assumere quell’atteggiamento da “sonnambuli” che caratterizzò la politica degli Stati negli anni 10 del secolo scorso, come ha ben spiegato lo storico Christofer Clark, in un suo magistrale saggio sulle cause della prima guerra mondiale. A tal fine, preziosi sono i costanti inviti alla pace che Papa Francesco indirizza, insieme alle stesse iniziative diplomatiche. E’ quello del Sommo Pontefice un richiamo (“La guerra è una sconfitta. Fermatevi”) a ciò che può fare la diplomazia che, invece, al momento, appare messa da parte, arresasi di fronte ai teatri di guerra. A Vienna nel 1815 una Conferenza che riunì le potenze europee di allora, assicurò un secolo di pace, dopo la lunga stagione delle guerre napoleoniche. L’Europa che ha nel Mediterraneo il suo bacino di civiltà deve assolutamente ritrovare una sua soggettività politica poiché, ancora una volta, potrebbe pagare prezzi alti da un conflitto allargato, come già sta avvenendo per la guerra ad Est. L’Italia animata da un intenso sforzo di relazioni internazionali, a cominciare dallo stesso “mare nostrum”, ha evidenziato, in pochi giorni, la partecipazione al summit in Egitto, la visita al premier israeliano, la piena partecipazione al desk telefonico tra le potenze mondiali, la riaffermazione del progetto – ancora sostenuto dal Presidente Biden - dei “due popoli due stati” e una posizione aperta di astensione nella risoluzione Onu per la tregua umanitaria, che ha visto contrari Israele e Usa e favorevoli, invece, altri paesi europei. Poiché immaginiamo che - come ha scritto Dario Fabbri su numero di ottobre di Domino, “quando Gerusalemme avrà terminato la legittima distruzione dello spazio di Hamas dovrà cominciare ad immaginare il futuro”, si potrà riaprire la prospettiva per assicurare stabilità alla regione medio orientale - Roma potrebbe candidarsi ad ospitare una Conferenza di Pace. Ne avrebbe legittima ambizione, non solo e non tanto per segno geopolitico o storico, ma per quel retaggio che da Gerusalemme a Roma ha costruito la civiltà occidentale.

Pietro Giubilo




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