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27/10/2023
Bce, tassi invariati ma l'inflazione è ancora alta
L’incredibile impennata dei tassi d’interesse statunitensi ha fatto scoppiare la scintilla, trascinando al rialzo tutti i tassi d’interesse, ma soprattutto quelli dei paesi altamente indebitati.

La Banca Centrale Europea (BCE) lascia invariati i tassi di riferimento al 4.50% per la prima volta da luglio 2021, ma l'inflazione resta una preoccupazione anche alla luce del recente conflitto arabo-israeliano che costituisce un altro shock avverso. Le decisioni restano guidate dai dati e quindi si procede ‘riunione per riunione del direttivo’. Per il nostro Paese e per l’economia in generale, sarebbe stato meglio avere tassi ‘elevati’ per un breve periodo che ‘tassi meno elevati’ per un lungo periodo. La BCE, facendo la sua parte nella lotta all’inflazione, li ha portati in territorio restrittivo. Ma per quanto tempo ci dovranno restare dipende, in massima parte, dai Governi dell’Eurozona e dalle politiche fiscali che praticheranno. Quando nel Belpaese in molti plaudivano alla posizione cosiddetta da colomba nel Direttivo della BCE di Fabio Panetta, espressa ad agosto in una conferenza nell’Università Bocconi, secondo la quale i tassi d’interesse non sarebbero dovuti aumentare più ma restare per molto tempo sui livelli raggiunti un manipolo di commentatori fecero notare come per un paese molto indebitato come l’Italia fosse lo scenario peggiore. L’incredibile impennata dei tassi d’interesse statunitensi ha fatto scoppiare la scintilla, trascinando al rialzo tutti i tassi d’interesse, ma soprattutto quelli dei paesi altamente indebitati. Tra questi, più di tutti, quelli dell’Italia che vede il suo titolo decennale superare il rendimento del 5%. Considerato che questo livello dei tassi da pagare sul debito pubblico se superiore alla crescita del Pil per un lungo periodo porta ad una dinamica avversa nella crescita del debito pubblico. Vediamo il motivo.

Come per ogni altra configurazione debitoria il disavanzo di bilancio ha due componenti. La prima è la così detta componente primaria, data dalla differenza fra entrate ed uscite del settore pubblico; la seconda, invece, è la componente finanziaria, composta dall’accumularsi degli interessi passivi sul debito in essere. La prima, quella primaria, dipende da fattori interni alla gestione del Settore Pubblico e dalla capacità del Governo di mettere sotto controllo il gettito fiscale e la dinamica della spesa pubblica. Mentre la seconda, quella finanziaria, oltre che dipendere dallo squilibrio tra entrate ed uscite, deriva dal livello dei tassi d’interesse. L’andamento del debito pubblico, invece, può essere compreso utilizzando i teoremi di matematica finanziaria che determinano l’accumularsi degli oneri finanziari. Questi ultimi, com’è noto, crescono nel corso del tempo con andamento esponenziale. Se il tasso d’interesse è costante, l’onere finanziario per ogni euro di debito primario tende a crescere allo stesso tasso. D’altronde, se, come è lecito supporre, il disavanzo annuale finanziato con emissione di debito pubblico è una frazione costante del Pil, esso cresce allo stesso tasso del Pil e anche il debito primario totale tende a crescere allo stesso tasso. In questo mondo semplificato, il debito primario totale cresce dunque al tasso di crescita del Pil, mentre gli oneri finanziari crescono ad un tasso pari al tasso d’interesse. Ne discende come conseguenza immediata che, in tutti i casi in cui il tasso d’interesse eccede quello di crescita del Pil, si ha quella che il Nobel Thomas Sargent (insieme a Neil Wallace), ha battezzato la “sgradevole aritmetica monetarista” con due conseguenze rilevanti.

La prima è che la componente finanziaria del debito, crescendo più rapidamente, diventa dominante e tende ad imporre il proprio tasso di crescita all’intero indebitamento. La seconda, invece, sotto gli occhi di tutti, è che il rapporto tra debito totale e Pil, di cui tanto si discute nel nostro Paese, tende a crescere in maniera inarrestabile. Siamo arrivati per la cronaca al 143.5 %. Quanto detto sopra in prosa può essere approssimato con la seguente formula. Non spaventatevi!: Dd = (r - g) d - a, dove Dd è la variazione del rapporto tra debito e Pil, r è il costo medio del debito (tasso d’interesse medio), g il tasso di crescita nominale del Pil, e a il saldo fra entrate e spese al netto degli interessi, positivo (avanzo) o negativo (disavanzo). Se ad esempio il debito fosse pari al Pil (100%) ed il costo del debito eccedesse di un 1% il tasso di crescita (r - g = 1%), con un avanzo primario nullo (a = 0), il rapporto debito/Pil (Dd) crescerebbe del 1%; resterebbe costante con un avanzo primario dell’1% (a = 1); diminuirebbe dell’1% con un avanzo primario del 2% (a = 2). Visto che il debito pubblico del nostro paese è superiore al 140% (e non il 100% come nell’esempio) e che 1% di avanzo primario significa almeno 18 mld di euro capite bene quanto angusta sia la strada per la stabilizzazione del nostro debito pubblico. Nel 2022, la variazione del Pil nominale (g) è stata del 6,8 % mentre quella della spesa per interessi del 4,3 % (r) e nel 2023 le percentuali sono state, rispettivamente, del 5,3 e del 3,8. Quando ciò avviene in virtù della dinamica del debito richiamata in precedenza il rapporto debito/Pil diminuisce - ceteris paribus -, considerato che il denominatore (Pil) cresce più del numeratore (stock di debito). Dal 2024, tuttavia, questa dinamica positiva verrà meno e la persistenza dei tassi ad un certo livello (la dottrina Panetta) conterà non poco.

Marco Boleo




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