Circa un mese fa l’Istat, l’Istituto di Statistica italiano, ha rivisto al rialzo il livello del Prodotto interno lordo (Pil) reale. Confermando il tasso di crescita del Pil del 2022, pari al 3,7%, ed innalzando del 1,3% quello del 2021 che sale in questo modo all’8,3%. In seguito a questa revisione dei dati di contabilità nazionale migliora il rapporto debito/Pil nel 2022 che passa dal 144,7% al 141,6%, mentre quello del 2021 salta dal 149,8% al 147%. La ragione di questa errata misurazione è dovuta al fatto che nel sistema produttivo, durante il biennio 2020-2021, si è verificata un’elevata natalità e mortalità di imprese, specie in quelle di piccole dimensioni. Inoltre, si è assistito a processi di riorganizzazione e di razionalizzazione che hanno determinato cambiamenti strutturali rilevanti, finalizzati al miglioramento dell’efficienza produttiva, anche attraverso il contenimento dei costi operativi. In un siffatto scenario l’assenza di indagini congiunturali sulla struttura dei costi intermedi delle imprese, nonché di informazioni riguardanti i comportamenti delle imprese in un contesto inflazionistico ha portato ad una discrepanza tra le stime definitive e quelle preliminari. Alla luce di queste revisioni emerge però la più grossa cantonata che è stata presa negli ultimi due anni e mezzo dai responsabili della politica economica italiani. Hanno creduto che l’Italia stesse sperimentando una debole ripresa economica e che pertanto occorresse stimolare la domanda aggregata per rafforzarla. Il loro ragionamento partiva proprio dall’osservazione che il livello del Pil reale fosse inferiore rispetto al livello massimo toccato nel 2007. Più formalmente, si credeva che in termini di livelli ci fosse un ‘vuoto di Pil’, un output gap (la differenza tra Pil effettivo e Pil potenziale rapportata al Pil potenziale) negativo da colmare con stimoli alla domanda aggregata (consumi più investimenti). Molti commentatori erano scettici nei confronti di quest’analisi per due ragioni di fondo.
La prima legato al fatto che un livello di Pil inferiore non comporta per forza un vuoto di domanda aggregata. Mentre la seconda è la mancata considerazione dei segnali positivi che stava inviando il mercato del lavoro. La forza che quest’ultimo mostrava non era affatto in linea con una semplice ripresa economica. Ogni congiunturalista coscienzioso sa che è molto più facile contare il numero dei lavoratori piuttosto che l’output che produce ciascuno di essi. Le revisioni ‘ex post’ al rialzo del livello del Pil operate da alcuni Istituti di Statistica in giro per l’Europa (Olanda, Germania, Regno Unito) insieme a quello italiano derivano proprio da questo tipo di difficoltà. Cosa ci stava comunicando il mercato del lavoro? Che l’occupazione aveva toccato i massimi storici: col tasso di inattività al livello più basso di sempre e quello dei posti vacanti a quello più elevato. Mentre il tasso di disoccupazione aveva sperimentato una costante diminuzione fino a raggiungere livelli storicamente inferiori. Questo andamento più che positivo del mercato del lavoro era la prova che la crescita del Pil fosse sottostimata. L’utilizzo della legge di Okun indicava che l’economia italiana stava sperimentando una fase di forte ripresa economica. E questo segnale era rafforzato dall’andamento demografico negativo del nostro paese. L’Istat per tutte queste ragioni ha rivisto al rialzo la crescita del Pil italiano. L’output gap con questa revisione diviene positivo. Il che vuole dire che negli ultimi due anni in Italia s’è scambiata una forte ripresa del Pil con un rimbalzo ciclico. In fin dei conti il sistema economico italiano non aveva alcun bisogno d’essere stimolato e le risorse fiscali utilizzate per farlo potevano essere utilizzate per ridurre il disavanzo di bilancio. Situazione che sarebbe tornata utile nell’attuale congiuntura.
Marco Boleo