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31/08/2023
Lavoro, necessario puntare sulla formazione
Serve un'operazione di politica economica e culturale che avvicini la scuola al mondo del lavoro.

Sono anni che ne parliamo del fenomeno ormai generazionale e in Italia come negli altri paesi del mondo industrializzato – USA in testa – diventava evidente ed emergenziale l’assenza di specifiche figure del mercato del lavoro. Figure tecniche meccaniche, legate all'hi-tech, ma anche alle professioni mediche e infermieristiche. Si dette la colpa al virus e ai suoi effetti collaterali nel tessuto stesso della nostra società. Ma con la fine della pandemia le cose sono possibilmente peggiorate, tanto che a luglio 2023 la quota di lavoratori introvabili è salita al 47,9%. Di chi è la colpa quindi? Davvero non abbiamo più voglia di faticare, come dicevano i nostri nonni? Di certo, il lavoro ha smesso di essere attrattivo perché ha smesso di essere una garanzia rispetto alla possibilità di migliorare le nostre condizioni di vita. I ragazzi di oggi non credono che invecchieranno più ricchi dei loro genitori, non credono che avranno pensioni all'altezza del loro sforzo produttivo, non credono dunque che saranno più felici, più solidi, più stabili di chi li ha messi al mondo. Non credono che faranno una famiglia prima dei trent’anni, che compreranno una casa accendendo un mutuo, non credono che spendersi per un'azienda o per un datore di lavoro garantirà loro la soddisfazione di farli sentire cittadini adulti e realizzati considerato che il sacrificio sia un valore assoluto come lo è stato per le generazioni precedenti. Lo spirito di sacrificio richiede ottimismo, oppure impellente necessità ed oggi non ci sono nessuna di queste due condizioni. La sensazione è che le ricette inventate finora per provare ad arginare un problema destinato a segnare i prossimi lustri, siano troppo timide e soprattutto ancorate a un mondo - il nostro vecchio mondo - ormai già scomparso e dal quale abbiamo ereditato davvero poco: non lo spirito, non i valori, non la speranza. Una delle sfide più urgenti dell'Italia oggi è il rischio del made in Italy che non è da perdere per nessun motivo e va protetto con tutta la domanda di lavoro che c'è e che invece resta spesso inevasa: una sveglia al Paese tramortito dal caldo e risentito per i morsi dell'inflazione.

La miriade di aziende protagoniste del rapporto annuale sul mercato del lavoro in una elaborazione di su dati Unioncamere-Anpal - conferma l'esistenza di un inaccettabile freno alla crescita di organici e fatturati. Per esplicita «mancanza di candidati» nel 32,4% dei casi, oppure per «inadeguata preparazione» nel 10,8% delle posizioni in palio. Se a luglio 2022 la quota di lavoratori «di difficile reperimento» sul totale delle assunzioni previste era ferma al 40,3%, il dato di luglio 2023 segnala addirittura un peggioramento: gli introvabili sono il 47,9% (+7,6% anno su anno). In pratica, per ogni posto di lavoro assegnato c’è una disoccupazione al 7,9% (dato Istat di giugno 2023 che tra i giovani s'impenna al 22,9%), e questo al di là delle ragioni storiche che motivano questo scenario così compresso: dalle strettoie formative alle dinamiche salariali. La preoccupazione delle imprese investe tutti i settori, da quelli più tradizionali fino alle attività digitali e hi tech. In particolare, le maggiori difficoltà di reperimento del personale emergono tra i tecnici specializzati in carpenteria metallica (70,5% di mancate assunzioni), nelle costruzioni (69,9%), nella conduzione di impianti e macchinari (56,6%). Non basta. Non c'è una macroarea, una regione o un comparto che segnali una controtendenza. La carenza di manodopera è così diventata uno dei maggiori problemi per le nostre imprese. Siamo al paradosso: il lavoro c'è, mancano i lavoratori. E, nel frattempo, 1,7 milioni di giovani tra 15 e 29 anni non studia, non si forma, non cerca occupazione. Ecco perché il dibattito su salario minimo e lavoro povero deve allargarsi ad affrontare con urgenza il vero problema del Paese: la creazione di lavoro di qualità. Secondo i ben informati, serve un'operazione di politica economica e culturale che avvicini la scuola al mondo del lavoro, per formare i giovani con una riforma del sistema di orientamento scolastico che rilanci gli istituti professionali e gli istituti tecnici, investa sulle competenze a cominciare da quelle digitali e punti sull'alternanza scuola lavoro e sull'apprendistato duale e professionalizzante. Bisogna insegnare ai giovani che nell'impresa ci sono opportunità, adeguatamente retribuite, per realizzare talento e ambizioni; la via più immediata «per costruirsi il futuro passa da un'offerta combinata di stipendi più alti, smart working e welfare aziendale. Dalle Aziende si dice che esiste una grande difficoltà a trovare profili tecnici, non solo laureati, anche diplomati. E con la sensazione netta che la situazione stia peggiorando è molto più ampio.

C'è l'annosa diffidenza verso gli studi cosiddetti 'Stem', vale a dire quelle discipline tecniche che al momento sono trainanti per lo sviluppo economico. Ma c'è anche il grande nodo del calo demografico, che bisogna affrontare al più presto. Quali possono essere allora le conseguenze di questo fenomeno per la nostra economia? Può sicuramente limitare la crescita. Noi siamo un Paese trasformatore, che ha bisogno di essere all'avanguardia nella ricerca, nella produzione, nella qualità. Senza le figure professionali adeguate, rischiamo di perdere la sfida. E poi, c'è anche un problema di remunerazione di questi ragazzi. Spesso troviamo figure professionalmente molto valide che preferiscono andare all'estero perché trovano condizioni migliori. Si tratta spesso di giovani molto apprezzati quando vengono assunti in altri Paesi. Questo significa che il nostro sistema formativo non è tutto da buttare. Nel frattempo, la politica si occupa del salario minimo, è chiaramente una falsa pista. Ed è la dimostrazione che la Politica fa solo danni quando entra in settori che dovrebbero essere lasciati alla gestione delle parti sociali, come la contrattazione collettiva. Si sconta ovunque la diffidenza culturale verso i profili Stem, ma anche per quelle tecnologie che avranno uno sviluppo sempre più invasivo nelle nostre fabbriche. Penso ai big-data e all'intelligenza artificiale. In secondo luogo, occorre convincere le famiglie, e soprattutto le mamme, che lavorare in fabbrica non è più come nel film Tempi moderni di Chaplin. Spesso, ancora oggi, se si fa un sondaggio, si scopre che se un figlio è particolarmente versato va al liceo classico, se è così e così, viene spedito allo scientifico, se non ha voglia di studiare, allora c'è l'istituto tecnico. Come a dire: consideriamo l'istruzione tecnica come qualcosa di inferiore. C'è poi il grande problema demografico che dobbiamo affrontare come hanno fatto altri Paesi. Non è vero che si tratta di una questione irrisolvibile. Dalle imprese occorrono più aiuti ai giovani nei settori trainanti. Nel mondo del digitale esiste sicuramente una grandissima mancanza di profili e competenze per la comunità del business della tecnologia digitale in particolare, i profili in cui ci sono le carenze più evidenti sono quelle dei data analyst, dei data scientist e di tutto il mondo della cosiddetta user experience.

Che cosa non funziona nel nostro mercato del lavoro? C'è una grande questione di formazione, intesa nel senso più ampio. Noi viviamo a stretto contatto con il mondo delle start up, non solo italiane. A livello europeo, ad esempio, si sono formati circa 25mila ragazzi. Giovani che, nel 98% dei casi, trovano subito un lavoro non appena terminano il periodo della formazione, ma forse ne occorrerebbero molti di più. Ci rendiamo perfettamente conto che si tratta di una sfida enorme, e proprio per questo, è necessario uno sforzo collettivo, che coinvolga gli imprenditori. Le aziende sono sempre più un luogo dove si deve imparare e acquisire competenze. Le università e, più in generale, il sistema scolastico, non sono in grado di formare i profili che servono alle imprese che vogliono stare sul mercato e non possono tenere il passo delle innovazioni, che sono continue e ve loci. C'è bisogno, in sostanza, di una formazione che segua le trasformazioni del sistema produttivo. Per questo sono necessarie due cose. Primo di tutto un supporto forte da parte di tutto il mondo della formazione professionale. E, poi, un ruolo più attivo da parte delle aziende, che devono investire di più. In Danimarca, ad esempio, le imprese aiutano le persone a formarsi nei settori che sono più richiesti. Ma non credo che ci sia anche un problema relativo al nostro sistema formativo, forse troppo orientato su vecchi schemi formativi. Infatti, ci sono settori dove è effettivamente difficile trovare scuole di formazione. Prendiamo il mondo della gestione dei dati: in Italia ci sono appena una decina di corsi universitari, invece, avremmo bisogno di migliaia di giovani per venire incontro alle richieste del mondo produttivo. Per questo sarebbe necessario un grande sforzo collettivo per fare fronte alla carenza di profili professionali. Una carenza che potrebbe mettere una serie ipoteca sullo sviluppo dell'economia, in quanto le aziende hanno un assoluto bisogno di innovare per essere competitive. E possono farlo solo con i profili professionali giusti.

Gilberto Minghetti




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