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18/07/2023
Il tiro alla fune tra salari e profitti
In Italia c’è stato una sorta di equilibrio: pertanto nessuna ‘predazione capitalistica’ a danno del lavoro.

Quando la propria strada nell’analisi economica diviene incerta da percorrere bisogna rifarsi ai maestri involontari incontrati nell’arco della vita. Uno di questi per me è stato il compianto professor Sylos Labini. Interessato all’analisi economica dinamica. I suoi contributi sulle innovazioni tecnologiche, sulle forme di mercato e sui cambiamenti nella distribuzione del reddito (tra salari, profitti e rendite) restano delle pietre miliari da seguire nella stagione che stiamo attraversando. Va da sé però che quanto verrà scritto in seguito sarà solo nello spirito del suo pensiero. Dopo la diffusione di uno studio di alcuni economisti in forza al FMI, è sorta una controversia: tra coloro che affermano che siamo in presenza di un’inflazione da profitti e tra quelli che sostengono il contrario. Ritornando ai contributi del prof. Sylos Labini a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80 del secolo breve scopriamo che questa è una vecchia tenzone determinata dall’andamento congiunto di due variabili: i profitti e l’inflazione. La teoria economica non esclude un’inflazione da profitti (dove l’aumento dei profitti è una delle determinanti dell’aumento dei prezzi) ma mette in guardia dal non confonderla coi profitti da inflazione (l’aumento dei prezzi porta con sé anche un aumento dei profitti). Tra le svariate metodologie utilizzate per calcolare il profitto, adottiamo quella meno complicata: la differenza tra ricavi (prezzo unitario × quantità venduta) e costi (lavoro, energia, altri beni intermedi), corrispondente al mark-up. Nell’eventualità che i costi energetici ed i prezzi di vendita aumentino entrambi della stessa percentuale e l’impresa continui a vendere la stessa quantità, anche il suo mark-up aumenta della medesima percentuale. Questo è il caso di trasferimento integrale dei costi sui prezzi. Stando così le cose però non risulta corretto sostenere che l’aumento del mark-up di questa impresa provochi l’inflazione. Due sono le ragioni. La prima è che l’impresa sta traslando sul prezzo solo l’aumento di costi che sta sperimentando. Mentre la seconda è che il valore reale del suo mark-up resta invariato.

Nel caso che le variazioni dei prezzi determinano necessariamente variazioni nella distribuzione del reddito (tra salari e profitti), scrive Sylos Labini, è radicalmente erroneo trattare le quantità reali e quelle nominali come se fossero fondamentalmente indipendenti fra loro. Nel caso in esame, pertanto, dovremmo parlare di profitti da inflazione, non già di inflazione da profitti, visto l’utilizzo di una ipotesi cruciale: l’invarianza della quantità venduta dall’impresa, dopo l’aumento di prezzo e costi. Questa ipotesi rimanda a una questione fondamentale: qual è la struttura del mercato in cui opera l’impresa? Le vendite non risentono dell’aumento del prezzo solo nel mercato di concorrenza perfetta; cioè, quando l’impresa possiede una quota di mercato trascurabile e non è in grado di fissare un prezzo maggiore rispetto a quello ‘di mercato’, pena l’uscita dal mercato stesso. La singola impresa può aumentare il prezzo solo quando tutte le imprese subiscono lo stesso aumento di costo e tutte reagiscono allo stesso modo. Quando il mercato non è concorrenziale e la gran parte delle imprese cerca di conservare la quota di mercato posseduta, se l’impresa vuole massimizzare il profitto, determinerà la quantità da produrre ed il prezzo di vendita in maniera coerente. Tenendo conto della relazione che esiste tra prezzo e domanda del proprio prodotto (elasticità della domanda rispetto al prezzo), ma anche del numero di imprese concorrenti, che vendono lo stesso prodotto o prodotti simili. Tanto più rigida è la domanda e tanto minore il numero dei concorrenti, tanto maggiore è il potere di mercato di un’impresa e il mark-up o margine che essa è in grado di applicare sui costi. In questo tipo di mercati due fattori possono far aumentare parallelamente i costi, i prezzi e i profitti: un aumento della domanda al netto dell’aumento del prezzo o un aumento del potere di mercato e quindi del mark-up stesso. Cosa osserviamo a tal proposito? Alcuni ricercatori della Banca d’Italia della cui analisi ci siamo occupati in un articolo precedente (Fabrizio Colonna, Roberto Torrini, Eliana Viviano) sostengono che nel Belpaese l’effetto di un aumento del mark-up ha avuto un impatto nullo sull’inflazione. Il secondo caso, è un aumento della domanda al netto dell’aumento dei prezzi. Dopo la pandemia e in seguito allo scoppio del conflitto russo-ucraino, a fronte di un aumento dei prezzi dei beni importati, all’offerta fortemente vincolata per le interruzioni nelle catene del valore globali, la domanda è stata sostenuta: alimentata da politiche monetarie e fiscali molto espansive.

Cosa ha generato tutto questo? Ha provocato che via via che il prezzo aumentava, le famiglie, da un lato hanno fatto sempre più fatica a ridurre la domanda sostituendo alcuni beni con altri; dall’altro, una domanda stimolata si è irrigidita agli aumenti dei prezzi o, il che è lo stesso, il margine ottimale è aumentato, spingendo le imprese a trasferire a valle gli aumenti dei prezzi dei beni energetici provocando una riduzione dei salari reali. Non è il frutto di un improvviso e arbitrario comportamento delle imprese, ma di condizioni di mercato particolari che si sono venute a creare e che solo la monetaria restrittiva può riequilibrare a favore dei salari. L'incompleta traslazione sui prezzi delle variazioni dei costi ha conseguenze molto rilevanti sulla distribuzione del reddito e, in particolare, sui salari e sui profitti: quando i costi del lavoro crescono, la quota dei salari sul reddito industriale tende a crescere e la quota dei profitti tende a diminuire; l'opposto accade quando i costi del lavoro diminuiscono. L‘Employment Outlook 2023’ pubblicato dall’Ocse qualche giorno ci aiuta a dipanare l’intricata matassa. In Italia la diminuzione dei salari reali medi è stata del 7,3% nell’anno compreso tra il primo trimestre 2023 e il 2022 visto che non hanno tenuto il passo dell’inflazione e questo non solo in Italia ma in tutti i Paesi aderente all’Ocse. Quelle che cambiano sono le percentuali. Nei quattordici trimestri del periodo preso in esame poi c’è un equilibrio pressoché perfetto in Italia nel ‘conflitto capitale-lavoro’: i profitti unitari sono cresciuti in modo molto contenuto, pari all’11%, mentre i costi unitari del lavoro hanno rincorso in modo pressoché coincidente: +10%. Considerare l’andamento dei salari (e non solo di quelli reali) e dei profitti unitari ci consente di scoprire come è andato il tiro alla fune tra capitale e lavoro, nell’arco di tempo considerato. In Italia c’è stato una sorta di equilibrio: pertanto nessuna ‘predazione capitalistica’ a danno del lavoro come molti sostengono. Lo scrive l’Ocse.

Marco Boleo




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