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15/07/2023
Forlani, il ricordo di uno di noi
La continuità della responsabilità politica forlaniana che lascia un messaggio per il presente e per il futuro.

In una stringente analisi della storia politica italiana dal 1945 al 1990, se ne individuava la specificità nel ruolo cruciale, «di sistema», giocato dai partiti nel funzionamento della nostra democrazia e insieme nel carattere incompiuto di questa, incapace di esprimere alternanze e maggioranze di governo per ragioni tanto istituzionali quanto più strettamente politiche. La storica «repubblica dei partiti» pareva avviarsi, ma di fatto verso una crisi irreversibile. Ed è quello che accadde, di lì a un paio d’anni. Le prime avvisaglie lo aveva intercettato prima di tutti, che giungeva agli inizi del ‘90, includendo lo scoppio della crisi che aveva presentito. Rileggere oggi questo spazio di storia, significa ripensare a quella crisi di sistema, a come la democrazia italiana ci è arrivata e a come purtroppo non ne è ancora uscita. Tutto il mondo cattolico e la DC erano di fronte alle nuove trasformazioni in atto con in cima l’emergere di una nuova società di massa, dopo l’esperienza fascista rafforzata dall’insegnamento di Pio XII sui richiami ai valori della persona, quelli morali contribuivano tutti a aprire una strada al superamento degli errori del passato; grazie anche ai contenuti delle Settimane sociali che contribuirono non poco a ricostruire i modelli del tempo: dal sottosviluppo e la miseria si guardava allo sviluppo economico con ottimismo come antidoto al comunismo. Il panorama degli schieramenti era abbastanza complesso. Craxi prediligeva Forlani al Quirinale perché era la mossa vincente per ritornare a Palazzo Chigi. Ma questo non andava bene ad Occhetto che preferiva Scalfaro alla vice-presidenza alla Camera anziché la riconferma di Napolitano. Alla maggioranza relativa della DC - guidata da Gava – che era per Forlani al Quirinale preferiva la guida della segreteria della DC (allora De Mita) che avrebbe accettato solo se al posto di Cossiga fosse andato Andreotti. Con la sorpresa di Pomicino (Andreottiano) spinse Gava a lasciare Forlani con l’ipotesi di optare per Andreotti in cambio della segreteria a Martinazzoli. Nel frattempo, i repubblicani speravano che da quel labirinto venisse fuori Spadolini, mentre Bossi che aveva promesso l’appoggio ad Andreotti - preparava il siluro per far scoppiare la crisi della DC. Fu Casini il giovane amico di Arnaldo Forlani a chiedere i voti del MSI a Fini apertamente, ma si ritirò e si arrivò alla prima votazione senza nessun candidato. Si arrivava alle porte dell’elezione del Presidente della Repubblica.

Dopo tre giorni di votazioni, a Forlani mancavano solo 39 voti (I votazione) e 29 (II votazione) e con 67 franchi tiratori: a lui non parve vero di ritirarsi. Ma sono certo che, anche alla luce di quanto è stato provocato a seguito di Tangentopoli, se fosse stato eletto Forlani la storia avrebbe assunto un’altra piega; proprio a partire dal fatto che sarebbe stato incaricato Craxi di formare il governo. Certo, anche le divisioni interne alla Dc non favorirono Forlani benché evidentemente fosse dispiaciuto da queste scene di divisioni, non disse mai nulla e non manifestò mai il suo dolore: un ulteriore tratto di un galantuomo. Qui sta, a mio avviso, la continuità della responsabilità politica forlaniana che lascia un messaggio per il presente e per il futuro, giacché si tratta, in effetti, della continuità che nel variare dele scelte, sempre oggetto del conflitto che pervade e qualifica la democrazia, ha segnato il concetto di progresso e stabilità: due fattori insieme nello svolgimento della politica di un segretario di un grande partito come la DC. “Il cambiamento per il cambiamento è caratteristica del diavolo” non era solo una sua risposta, ma esprimeva tutta la consapevolezza di affrontare il nuovismo con la spontaneità che incarnava non ne esaltava l’arroganza, ma lo rappresentava con umanità e discrezione. Si può ben dire che dopo 45 anni di presenza DC al governo qualche incrostazione danneggiarono quel corpo con un appesantimento operativo da apparire senza ritorno, e col segnalato ritardo nella valutazione dei capitoli della nuova storia che la fine del Novecento stava scrivendo. Contemporaneamente a tutto ciò scattò un intervento massiccio della magistratura italiana nella vita interna di alcuni partiti, specie nel PSI e nella DC. Per la Procura di Milano e per le altre Procure fu facile, attraverso la legge che vietava il finanziamento dei privati ai partiti, le famose tangenti per intenderci, entrare nelle cittadelle dei partiti, ormai senza valide difese, e individuare le entrate finanziarie illecite.

Gli interventi furono talvolta talmente violenti e privi di ogni riservatezza discrezionale da sembrare analoghi ai famosi processi di piazza mancanti di ogni difesa. In quel momento lo strabismo della Magistratura fu decisamente determinante per abbattere alcuni partiti storici e salvarne altri, anche se tutti, chi più e chi meno, avevano beneficiato dei finanziamenti illeciti. Perfino la Lega Nord, l’ultima arrivata, fu trovata con le mani nella marmellata. Invece nulla, o quasi, questa imponente bufera giudiziaria costò al PCI. Si tratta di una circostanza ancora da chiarire completamente, a causa della quale gli equilibri politici subirono una sorta di doping giudiziario. Il PCI, che aveva un esercito di impiegati, di funzionari, tante sedi pretenziose e costose nell’intera penisola e una mastodontica macchina organizzativa, non poteva vivere col solo contributo dei suoi aderenti. Non a caso, dopo Tangentopoli, l’ex PCI dovette drasticamente ridurre il numero dei suoi dipendenti e vendere gran parte del suo patrimonio immobiliare, compreso il giornale L’Unità. In quel momento però il PCI, insieme anche alla Lega Nord e al MSI Destra nazionale, alzò la bandiera del facile moralismo e applaudì l’irruenza accusatoria della Procura di Milano e delle altre Procure. Dentro al terremoto giudiziario furono salvati i partiti dell’opposizione, quelli insomma che in alcuni momenti storici non erano stati determinanti nelle scelte strategiche. Basterebbe ricordare tre “no”: quello sul Patto Atlantico, quello sulla legge elettorale maggioritaria del 1953 e infine il no alla prima Unione Europea. Pur ammettendo che l’analisi storica non può definirsi ancora compiuta e che le sfaccettature di quegli anni da mettere in luce e conoscere a fondo possono essere ancora tante, non ci può essere dubbio che così finiva la DC, un grande partito, comunque la si pensi, artefice principale della democrazia, della libertà e dello sviluppo economico-sociale nel nostro paese, dal 1945 in avanti. Chi, come me, ha percorso per intero quel tratto di cammino, impegnandosi in prima persona, non può ora non sentire una forte amarezza nel ritornare a quegli eventi e a quella fase storica.

Gilberto Minghetti




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