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19/06/2023
La strage dei disperati
E’ indispensabile una visione più complessiva che affronti sia la tutela del diritto ad espatriare, ma anche quello di non emigrare

Ha ragione Marina Corradi, la delicata e umanissima editorialista de l’Avvenire. La chiusura del suo fondo di sabato 17 sul naufragio del peschereccio a Pylos con 750 “anime” a bordo, quasi tutte catalogate tra i “morti” e i “dispersi”, è una denuncia dura, un pugno nello stomaco. “Noi - scrive – addolorati, certo, domani penseremo ad altro. E’ questo dimenticare, che mi preoccupa. Dev’essere questo costante dimenticare che, nella mia casa in pace, preme stasera contro i vetri delle finestre. Non è il vento. Queste morti noi le tolleriamo e taciamo. Non è il vento: è un balbettio della coscienza”. Si, perché anche in questa ennesima circostanza, già 48 ore dopo, le notizie sul tragico evento, relegate nelle pagine lontane dalla prima, sviano verso una ricerca di responsabilità, descrivono una presunta successione degli eventi, come dire girano intorno al fatto, senza andare alla verità. Questo fatto orribile è, infatti, già accaduto dieci, cento, tante altre volte. E’ ormai cancellato dalla memoria il naufragio delle motonave albanese nel Canale d’Otranto che il Venerdì Santo del 1997 condusse alla morte 108 persone. Da allora la cronaca è stata spietata. Già il 3 e l’11 ottobre di dieci anni fa, davanti a Lampedusa, ne morirono 636; il 18 aprile del 2015 nel Canale di Sicilia 800; fino ai 78 di Cutro a febbraio di quest’anno ed ora quest’ultima tragedia, ancora non certa nei numeri. Il Corriere della Sera sabato 17 giugno ha pubblicato una piantina del Mediterraneo, nella quale in tutte le sponde, dal Marocco all’Egitto, fino alla Turchia e alla Grecia, piccoli cerchi rossi indicano i casi che hanno provocato morti affogati. A guardarli sembrano macchie di sangue che si coagulano soprattutto tra la Sicilia e la Tunisia. La contabilità delle morti è impressionante: dal 2014 ad oggi sono oltre 27 mila, quest’anno siamo quasi a 1300. In questi resoconti, come anche nelle notizie su allarmi dati e non dati, su salvataggi tentati e non riusciti, come già detto, manca la verità e cioè che fino a quando non ci sarà un modo per intervenire e controllare alla partenza questo fenomeno, i morti continueranno ad aumentare e la coscienza di coloro che potrebbero o dovrebbero intervenire continuerà a balbettare.

Tentativi di creare una organizzazione dei soccorsi, ci sono stati: da Mare Nostrum a Triton, alla missione Eunavfor poi ribattezzata Sophia, oltre che la presenza delle Ong; ma da parte di Frontex, condivisa da seri giornalisti d’inchiesta come Francesca Ronchin, si è giunti alla paradossale conclusione che “senza volerlo, i mezzi di soccorso finiscono per aiutare i criminali a raggiungere il loro obbiettivo al minimo costo, permettendo loro di rafforzare il proprio business model tramite l’ottimizzazione delle possibilità di successo”. Cioè intorno al dramma dell’emigrazione, fenomeno da accettare e governare, si sviluppa un giro criminale che, sfruttando la speranza e la ricerca di un domani migliore di coloro che fuggono dalla guerra e dalla miseria, favorisce con ogni mezzo l’avventurarsi in mare portando alla morte, in modo orribile, migliaia di uomini, donne e bambini. Le inchieste come quella recente della Dia e l’operazione della squadra mobile di Catania, che hanno portato al fermo di 25 persone con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, sono solo degli episodi che emergono in un quadro assai più ampio e complesso che riguarda reti internazionali di vasta portata. Su questo aspetto occorrerebbe fare molto di più a livello internazionale. E’ necessario e possibile, come indicava il Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa del 2015 “attuare nei confronti di queste organizzazioni una comune azione di polizia che finora non è stata nemmeno tentata”; “l’esistenza di queste organizzazioni - aggiungeva – la loro impunità in quanto al di fuori di ogni controllo politico, dimostra che le migrazioni sono un fenomeno pianificato, che si fonda certamente su bisogni reali ma non casuali”. Ora, in tutto questo, quale verità dovrebbe emergere una volta per tutte? Cosa deve accadere ancora perché si affronti, con la forza di una unica volontà di intervento della Commissione europea, la questione delle partenze e della necessità che con gli stati rivieraschi si prendano accordi per favorire, in condizione di sicurezza, tutti coloro che hanno non solo la tutela per lo status di profughi di guerra, ma anche per chi cerca altrove una condizione economica più favorevole.

La questione delle emigrazioni va affrontato in questi termini. E’ indispensabile una visione più complessiva che affronti sia la tutela del diritto ad espatriare, ma anche quello di non emigrare e restare ad aiutare il proprio Paese a superare le difficoltà e a collaborare allo sviluppo. Devono finire i giochi di guerra che vedono le stesse grandi potenze destabilizzare, esse stesse, aree geografiche, armando e finanziando stati corrotti, califfati e qualche volta gli stessi terroristi. Oppure occorre denunciare senza riguardo alcuno gli effetti negativi di una globalizzazione che ha riprodotto gli aspetti più deleteri di quell’atavico saccheggio delle materie prime nel Continente africano, provocando povertà e non sviluppo. Siamo di fronte ad un fenomeno di sfruttamento assai più negativo dello stesso colonialismo dei secoli scorsi. La politica degli Stati e soprattutto dell’Unione Europea ha il dovere di intervenire su un fenomeno che, spesso, appare provocato direttamente o indirettamente, da reti di interesse o progetti di sfruttamento, con la teorizzazione di un alibi che si dimostra senza fondamento e cioè che questi immigrati contribuiranno al bilancio delle prestazioni sociali e previdenziali. O che, positivamente, compenseranno la diminuzione della natalità. Dopo Pylos, ha ragione Marina Corradi, non possiamo più né tollerare, né tacere. Se non prendiamo coscienza, una volta per tutte, della necessità di fermare le morti nel Mediterraneo, se l’Europa non pone come primo punto la questione di una regolazione delle partenze e non solo la ripartizione dei sopravvissuti, cioè degli arrivi, che ancora manca, se non si pianifica una politica di intervento nelle zone di maggior bisogno economico, se non si attua una politica che denunci le interferenze di stati e dei grandi interessi per suscitare instabilità e lotte civili, se si decide di dimenticare anche questa ultima tragedia davanti alle coste della Grecia che ha visto inabissarsi una stiva piena di bambini e delle loro madri, allora sarà dimostrato quello che intelligenze preoccupate e le più elevate autorità spirituali oggi paventano e cioè che l’Europa sia ormai senza anima. E questo significherà che non ha neppure un futuro.

Pietro Giubilo




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