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13/06/2023
Dopo Berlusconi
L’Italia è ora in mare aperto, deve saper navigare e seguire la rotta giusta.

Silvio Berlusconi lascia, ma resta, consegnata alla storia, la sua azione nella politica italiana. Nel 1994 avrebbe potuto rimanere solo un imprenditore di successo, la sua vera vocazione, se gli avvenimenti dei primi anni ’90, con la “rivoluzione giudiziaria” non avessero cambiato traumaticamente la politica del Paese, inducendolo a “scendere in campo”. Ma perché “dovette”, proprio lui, assumere tale responsabilità? Perché in effetti questa “rivoluzione” non poteva essere e non fu un vero cambiamento, ma via via che le inchieste giudiziarie “esplodevano”, si chiariva che venivano ad essere cancellate solo alcune culture e forze politiche, non quella che si era definita comunista e che solo qualche anno prima aveva iniziato una cosmesi più di facciata che non di reale cambiamento. Si stava realizzando ciò che poi il voto, dopo l’avvento di Berlusconi, dimostrò ampiamente e cioè che non solo l’azione giudiziaria aveva prodotto, consapevolmente, come poi esponenti dello stesso pool di Milano riconobbero, un enorme e unidirezionale vuoto politico, ma si stava affermando la rischiosa prospettiva che una rappresentanza elettoralmente minoritaria, per assenza di rivali, avrebbe conquistato con “una gioiosa macchina da guerra”, il potere istituzionale. Berlusconi costruì in pochi mesi un partito non partito. Il suo fu un “appello al popolo”, evitando il successo di quello che molti definirono un “golpe”; appello che il mezzo televisivo e, soprattutto, la capacità di comunicazione resero possibile. L’operazione, tuttavia, fu più complessa di quanto comunemente non si creda: Baget Bozzo confidò a chi scrive che il nome “Forza Italia” fu scelto da Bettino Craxi. Per lungo tempo “reduci” e neoprotagonisti della politica, non di sinistra, hanno rimproverato a Berlusconi il fatto di non aver costruito un “vero” partito e di non aver favorito l’affermarsi di una nuova classe politica. Anche qui la verità è assai più complessa. Più che per la poco contendibile leadership del manager milanese, tale prevalenza avvenne anche per la scarsa consistenza politica di chi era sopravvissuto o di chi si trovò sbalzato dalla ininfluenza al protagonismo. A Berlusconi va ascritto il merito – per i sostenitori – o, la colpa, – per i detrattori – di un cambiamento materiale della Costituzione.

In sintesi dalla rappresentanza proporzionale al bipolarismo; dimenticando, però, che le premesse furono gettate dai referendum per eliminare le preferenze e dalle regole maggioritarie introdotte precedentemente. Era stato avviato quell’indirizzo riduttivo del ruolo dei partiti, sollecitato dall’establishment mediatico, manifestatosi già prima dell’avvento del fondatore di Forza Italia. A Berlusconi competé il compito di prendere atto di una crisi e della necessità di un cambiamento, più nella sostanza e nella influenza personale che nelle regole, che altri non erano stati in grado di portare fino in fondo. A riguardo fu contrastato per un rifiuto personalistico. Ricordo che anche personalità democristiane favorevoli al presidenzialismo ne divennero contrari perché proposto da Berlusconi. Del resto, per quasi venti anni, le forze politiche nel tempo della prima repubblica discussero senza produrre alcuna vera riforma costituzionale. Già prima delle inchieste giudiziarie inconsapevolezza e indeterminazione avevano segnato il declino della fase politica avviata dopo la seconda guerra mondiale. Agli occhi della cultura dell’“arco costituzionale”, il bipolarismo berlusconiano ha presentato un aspetto mai accettato e ritenuto inaccettabile: inseriva nella costituzione materiale del Paese anche la destra del cui ostracismo la sinistra ha fatto un elemento costitutivo. Per cui ancora oggi, nel 2023, si evoca quella dicotomia fascismo - antifascismo, tanto anacronistica quanto strumentale. Basti ricordare che una personalità antifascista di sinistra, tragica e profetica, come Gaiame Pintor, riteneva che “uscire dagli ’anti’ ” e “da quella antitesi”, sarebbe stata “la condizione di ogni lavoro serio”, come già nel lontano 1950 rivelò Felice Balbo, tra le migliori intelligenze politico filosofiche del novecento. A modo suo, cioè con una forte personalizzazione, Berlusconi tentò di mantenere significativo il ruolo internazionale dell’Italia. Le sue direttrici politiche non erano lontane dalle vie tracciate dalle intelligenze politiche della prima Repubblica: rapporti distensivi con la Russia, difesa degli interessi nel Mediterraneo, occidentalismo ed europeismo coerentemente percorsi, ma senza abdicazioni. Linee non sempre difese con efficacia da tutti, soprattutto incomprese da una sinistra troppo spesso miope sulle convenienze nazionali.

Cosa lascia Berlusconi? Un sistema politico non ancora stabilizzato, tanto è vero che qualche giorno fa’ è ricominciato l’iter politico per una riforma della Costituzione a carattere presidenziale. Anche il panorama politico è cambiato perché la guida del governo, dopo le elezioni del settembre dello scorso anno, è passata al partito di maggioranza relativa, cioè Fratelli d’Italia. Che il leader di Forza Italia finì per accettare non senza qualche remora, restando in lui l’idea di privilegiare il “popolarismo”, in quanto aderente al Ppe. La cultura politica di sinistra stenta a comprendere la necessità di riforme e la nuova condizione politicata, sottraendosi ad un rigoroso esame della realtà. Da tempo una miopia culturale che sposta l’attenzione dal sociale ai diritti, impedisce di guardare e comprendere, risalendo alle cause più profonde di tale spostamento politico, in primis l’impoverimento dei ceti medi e popolari e una “questione antropologica” sollecitata dalla cancellazione di valori fondanti. Anche le grandi sfide internazionali richiedono un sistema politico nel quale governabilità e rappresentanza siano reali e tali da affrontare con speditezza le necessarie e opportune politiche. Ne è evidente testimonianza la difficoltà nel redigere e, soprattutto, nel realizzare i progetti più significativi del PNRR – persi nei meandri del ginepraio legislativo, procedurale e delle competenze. Lo dimostra, esemplarmente, la eliminazione di due importanti progetti di tratte ferroviarie, mentre pullulano micro progetti, ininfluenti per lo sviluppo del Paese. Non sembra alle porte il superamento di steccati e vecchie liturgie, ciò che in fondo ha impedito di fare del tempo di Berlusconi, un tempo di veri cambiamenti. Condizione indispensabile per realizzarli sarebbe il superamento di quella costante divisività che impedisce di realizzare un sentire comune, una concordia nazionale. La morte di Berlusconi, però, fa venire meno i falsi alibi – connessi alla sua presenza - per i vecchi vizi e le incapacità della politica di oggi. Una presunta “Camicia di Nesso” inesistente, denunciata per nascondere i veri problemi e i limiti di un sistema che vive sul presente e che non ha il coraggio di guardare lontano, al futuro delle prossime generazioni. L’Italia è ora in mare aperto, deve saper navigare e seguire la rotta giusta.

Pietro Giubilo




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