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05/06/2023
L’Italia politica e le radici culturali
Le questioni decisive per il Paese sono innanzitutto il buon governo, ma anche la ricostruzione di una cultura diffusa che riaffermi i valori fondativi delle nostre comunità.

Nelle recenti votazioni il centrodestra ha registrato una crescita di consensi e la conquista della guida di capoluoghi di provincia e di località minori. Il risultato pur prevedibile non era scontato poiché l’azione di governo sta andando avanti con non poche difficoltà. Si assiste, da tempo, ad una inversione del vecchio detto andreottiano che “il potere logora chi non ce l’ha”, in quanto la governabilità oggi appare condizionata e limitata, oltre che da insufficienze locali, anche da un quadro internazionale complesso e pieno di incognite e, di conseguenza, essere al governo può allontanare dal consenso. Questo consolidamento si spiega solo in parte con le difficoltà di avvio della gestione Schlein nel Pd che non riesce a costruire una alternativa credibile, in presenza, peraltro, di una coesione nell’ambito del centrodestra che riesce ad evitare che le pur differenze culturali e politiche producano effetti negativi e fuga di consensi. Questa conferma del primato elettorale del centrodestra appare in controtendenza rispetto al contesto culturale del Paese. Resta infatti evidente che larga parte dei media e degli opinionisti che appaiono sugli schemi della televisione e i nuovi “idoli” dei social, cioè gli influencer più famosi, appartengano ad una visione diversa ed opposta rispetto alle posizioni politiche e culturali delle forze di governo. I risultati di questa tornata elettorale, pur nelle differenze e nelle specificità locali, sembrerebbe quindi confermare quello che disse il cardinale Camillo Ruini nella intervista al giornalista Aldo Cazzullo, all’indomani delle elezioni politiche del 25 settembre dello scorso anno e cioè che: “La cultura è a sinistra, ma il Paese a destra”. Addirittura si potrebbe affermare che la spinta a destra, che ha contribuito a ridimensionare anche il tradizionale ampio consenso per le posizioni centriste popolari che si era espressa fino ai primi anni ’90, sembra una reazione, a livello degli elettori, contro quella egemonia culturale, “pedagogica”, cui Gramsci aveva affidato il compito di giungere alla secolarizzazione del modo di pensare degli italiani, operando per la cancellazione di quei valori antropologici che erano stati affermati nei secoli dalla cultura e dalla civiltà italiane.

Finito il gramscismo e, come ha scritto a febbraio Giovanni Orsina, ridottasi la cosiddetta cultura progressista alla spartizione dei centri di potere, “il valore su cui ricostruire è forse un dato antropologico di base”. “Gli esseri umani” - ha precisato il direttore del dipartimento School of government della Luiss Guido Carli - “chiedono identità, chiedono comunità”. Non vi è dubbio che, ad una analisi più puntuale, il voto che ha premiato il centro-destra e che sembra stabilizzarne il consenso, possiede un connotato diverso dagli spostamenti di opinione degli elettori che si sono verificati negli ultimi anni, quando, per esempio, venne premiato il Pd di Renzi per il superamento della inconcludente retorica postcomunista o quando, per una forma di protesta, ottenne una larga maggioranza il Movimento dei 5 stelle. Occorrerebbe anche una lettura più approfondita di quell’aspetto definito spregiativamente di “sovranismo”, poiché sembra emergere una esigenza da parte degli elettori affinché la politica arresti quella cessione di sovranità che ha portato a ritenere che nelle istituzioni rappresentative sia impossibile realizzare programmi, poiché le vere sedi decisionali si sono spostate altrove: dai mercati alle istituzioni sovranazionali scarsamente partecipative. Anche questa volta gli elettori, confermando la tendenza delle ultime amministrative, hanno espresso una esigenza di rappresentanza, cioè una scelta affinché la politica nelle sue istituzioni, oltre a migliorare le condizioni di vita e di sviluppo, ricostruisca le basi di una convivenza nazionale e di un comune sentire. Un consenso che impegna la politica, come ha scritto Giorgio Caravale, professore di storia moderna presso Roma Tre, in un recente saggio (“Senza intellettuali. Politica e cultura in Italia negli ultimi trenta anni”) “a migliorare le condizioni” affinché gli intellettuali possano operare “in una società come quella contemporanea il cui sistema comunicativo premia l’aggressione dell’avversario, la partigianeria, il dileggio e l’insulto”; condizioni, ha precisato, “difficili da garantire, in particolare, in un paese come il nostro nel quale l’impegno si è quasi sempre declinato nei termini della faziosità, mentre il disimpegno si è viceversa colorato di disprezzo e fastidio nei confronti degli attori politici”.

Si deve quindi constatare come consenso politico e culturale, oggi viaggino su direzioni diverse. Possiamo dire che le questioni decisive per il Paese siano innanzitutto il buon governo, ma anche la ricostruzione di una cultura diffusa che riaffermi i valori fondativi delle nostre comunità e ponga le basi per una concordia nazionale. In questa situazione potrebbe soccorrere quella ispirazione culturale del centrismo popolare, non adeguatamente rappresentata nelle ultime competizioni politiche. In Europa si evidenzia un fenomeno paradossale: mentre in diversi paesi si afferma il popolarismo – come nelle recentissime elezioni spagnole – in Italia questa parte politica non risulta adeguatamente rappresentata, ovvero sembra assorbita all’interno della coalizione di centrodestra. Senza necessariamente aspettarsi, nell’immediato, una inversione di tendenza, sarebbe importante che in una Italia divisa e rancorosa, questa cultura, riconoscendosi nel “tracciato” che Augusto Del Noce descrisse nel libro “Da Cartesio a Rosmini”, riscopra le sue radici culturali che indicano i valori della verità, della vita, della moralità, del rispetto dell’essere, della libertà della persona, della persuasione e non del comando. La destra, come sembrerebbe dalle intenzioni manifestate, non ricercherebbe una contro-egemonia e neppure una “occupazione” nella regina dei media, cioè la Tv di Stato. Bene ha detto Pietrangelo Buttafuoco in un colloquio con Gad Lerner, ospitato dalla Lettura del Corriere della Sera di domenica 4 giugno: “La sottocultura mediatica è estranea al vero lavoro intellettuale. Bisogna occuparsi piuttosto di garantire qualità alle università, di proiettare all’esterno le immense potenzialità dell’Italia in campo culturale”. Nel tempo dell’effimero la riscoperta delle radici culturali rappresenta la via obbligata per respingere la dittatura del pensiero unico e le sue conseguenze sul piano sociale e politico.

Pietro Giubilo




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