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16/05/2023
Riforma costituzionale, presidenzialismo e rappresentanza
La scelta sulle riforme costituzionali deve avere come finalità indispensabile il rafforzamento della rappresentanza e del ruolo della politica.

L’avvio del confronto politico sulle riforme costituzionali che ha visto il governo aprire un dialogo con le diverse opposizioni, merita qualche approfondimento per comprendere come alcune pregiudiziali, spesso strumentali, sottendono, in definitiva, l’intenzione di far naufragare anche questo ennesimo tentativo di cambiamento. Nello stesso tempo, in un quadro più ampio, ciò che si andrà a decidere in materia costituzionale, dovrà tenere in considerazione anche la questione della crisi della politica e della rappresentanza. La questione della modifica della seconda parte della Costituzione ed in particolare del metodo di elezione dei vertici istituzionali, non è nuova. La proposta presidenzialista che oggi appare nelle intenzioni del centrodestra, non ha, tuttavia, una storia solo in quel campo politico. E’ vero che, negli anni ’80, Almirante, ne fece un suo cavallo di battaglia, ma le sollecitazioni più autorevoli vennero dalle altre parti politiche. Già prima dell’approvazione della Carta, il quotidiano Italia Libera, all’inizio del 1946, pubblicando la piattaforma del Partito d’Azione, titolava: “Repubblica presidenziale, autonomie locali, economia di popolo, governo democratico di sinistra”. Successivamente non si possono non ricordare il tentativo presidenzialista di Randolfo Pacciardi - repubblicano, comandante partigiano, Ministro della difesa dal ’48 al ’53 - sviluppato negli anni ‘60 con il movimento per una “Nuova Repubblica” o, successivamente, l’iniziativa di Bartolo Ciccardini e Giuseppe Zamberletti e numerosi altri parlamentari democristiani, nei primi anni ’70, per l’elezione diretta del Capo dello Stato o i connotati presidenzialisti della “grande riforma” di Bettino Craxi, elaborata da Giuliano Amato negli anni ‘80. Senza contare le svariate commissioni parlamentari da Bozzi a D’Alema che discussero, per qualche decennio, senza pregiudizi, ma neppure concludendo, di presidenzialismo, semipresidenzialismo e di primariato. Andrebbe considerato, in questa disamina, anche l’autorevole parere del professor Sabino Cassese, non certo simpatizzante della destra politica, che in una intervista al Corriere della Sera del settembre dello scorso anno (“Il presidenzialismo? Può soddisfare l’esigenza di consolidare i governi”) diceva esplicitamente che “modificare la Costituzione non è un attentato alla Costituzione”, per concludere ricordando che “quando, nell’ultimo decennio del secolo scorso, si introdusse la riforma presidenziale per comuni e regioni, si disse che si voleva sperimentare il presidenzialismo per poi trasferirlo anche a livello nazionale”; orbene aggiungendo: “ la sperimentazione ha dato risultati complessivamente positivi; perché non tenerne conto?”.

Spicca, in controtendenza, il parere del professor Agostino Giovagnoli che ad agosto dell’anno scorso su Avvenire (“La cura non è presidenzialista”) argomentava la sua contrarietà per le “grandi preoccupazioni” derivanti dal “ fatto che il presidenzialismo venga proposto anche da forze politiche storicamente collegate al fascismo” , e concludendo che con esso “si realizzerebbe … una divisione traumatica nel popolo italiano”, mentre dovrebbe essere apprezzate “figure di garanzia - qual è attualmente il presidente della Repubblica in Italia - in cui possono riconoscersi tutti gli italiani e la cui imparzialità aiuta a tenere unita una società sempre più sottoposte a spinte disgreganti”. Gustavo Zagrebelsky si è spinto più oltre arrivando a scrivere che “il presidenzialismo rischia di fondarsi sull’odio”. Ora, mentre appaiono poco sostenibili le presunte preoccupazioni per il fumus fascista che avvolgerebbe la proposta presidenzialista e la conseguente traumatica divisione che ne deriverebbe dalla sua istituzione, è ragionevole e importante sottolineare il carattere di imparzialità e di rappresentanza complessiva del popolo e della Nazione inerente al Quirinale ed al suo ruolo che andrebbe, per la verità, rafforzato e salvaguardato, incrementandone l’autorevolezza e mantenendone intatte le prerogative. La proposta semipresidenziale, cioè l’elezione a suffragio universale del Presidente della Repubblica, con una marginale modifica dei suoi poteri e il mantenimento della figura del premier eletto con l’attuale sistema elettorale, costituirebbe una soluzione equilibrata, sia raccogliendo la necessità di rafforzare la saldezza delle istituzioni, sia e, soprattutto, rispondendo alla esigenza di rappresentare più vigorosamente l’unità nazionale e di eliminare le distorsioni verificatesi nell’esperienza passata e di far partecipare più largamente il popolo alle scelte politiche. Infatti, proprio a questo proposito, appare indispensabile domandarsi, per rispondere alle preoccupazioni del professor Giovagnoli, se sia il metodo di elezione a determinare la migliore o minore possibilità di fare emergere quella autorevolezza e la stessa possibilità di rappresentanza di quella “comunità coesa e di una politica unitaria” che si richiedono al Presidente della Repubblica. La elezione parlamentare del Capo dello Stato, nella realtà, ha quasi sempre mostrato spaccature e contrapposizioni, con manovre parlamentari opache e finalizzate a interessi di parte o, addirittura, personali.

Le divisioni anche all’interno degli stessi schieramenti si sono accentuate, come è, purtroppo, accaduto anche con l’elezione di Sergio Mattarella nel 2022, giungendo, oltretutto, ad una soluzione che ha prodotto una conferma, certamente significativa per il prestigio della figura del politico siciliano, ma comportando un tempo doppio al già non breve mandato previsto dalla Carta. Siamo certi che una scelta popolare diretta e lo sganciamento dagli aspetti manovrieri e dai tatticismi d’aula (assenze e non voto per ripetute votazioni), che spesso hanno accompagnato la elezione bicamerale, restringerebbero l’autorevolezza e la possibilità di una rappresentanza più complessiva, sulla quale basare un indirizzo di coesione e di unità nazionale da proporre al lavoro delle istituzioni? Vi è, poi, un altro aspetto sul quale riflettere e che, nel disorientamento politico dilagante, non viene considerato. I sostenitori dell’elezione diretta del premier, cioè la proposta del cancellierato, ritengono che essa andrebbe a rendere più efficace l’azione del Presidente del Consiglio, senza toccare il Capo dello stato, la cui figura e le sue funzioni devono essere salvaguardate. Ora tra le funzioni del Quirinale, non v’è dubbio che, primariamente, figuri quella dell’incarico di formare il governo e di valutarne la stessa composizione. Ora l’elezione a suffragio universale del premier comporterebbe l’annullamento di tale prerogativa, senza contare che, proprio perché eletto direttamente questi si sentirebbe nella condizione di presentare alle camere una composizione dell’esecutivo in modo autoreferenziale, rendendone conto solo al Parlamento per il voto di fiducia. E’ proprio questa modalità di elezione del premier che porterebbe ad un indebolimento della istituzione presidenziale e del suo ruolo, riducendo, inoltre, nettamente, quei necessari contrappesi che dovrebbero accompagnare le investiture popolari dirette delle più alte cariche istituzionali. A proposito di riforme istituzionali ed oltre, vi è un tema che mostra la crisi della politica in quanto tale e che richiederebbe qualcosa di più e di diverso ed è la crisi della rappresentanza. La ormai dilagante disaffezione elettorale deriva certamente da una meno attraente classe politica e dal ridursi dei partiti a meri comitati elettorali che, tuttavia, non riescono a favorire una vera partecipazione, se non di carattere prevalentemente personale o leaderista.

La sensazione è che, proprio di fronte a sfide e cambiamenti epocali, alla crescita di incertezze e precarietà soprattutto per i giovani e nel lavoro, ad un dilagare di diseguaglianze e perdite di ruolo sociale da parte di “pezzi” importati della società, a partire dal peso del ceto medio produttivo, la politica abbia compiuto una cessione di sovranità. E’ il fenomeno che Giuseppe De Rita denuncia come il “virus” per il quale, per far politica “non serve più … una piattaforma programmatica, un retroterra ideologico, un apparato organizzativo, un radicamento territoriale”, essendo sufficiente “solo navigare nell’opinionismo regnante”. La condizione operativa dei parlamenti e dei governi; i luoghi delle decisioni più rilevanti: dalla politica estera alla destinazione delle risorse; i cambiamenti delle condizioni di vita e dell’uso delle proprietà: dalla casa all’automobile; i costumi alimentari e i modi di esplicare le attività produttive sono tutti aspetti ormai influenzati, in modo determinante, da poteri e livelli decisionali che sfuggono alla politica ed ai luoghi di rappresentanza dei cittadini. L’impressione netta è che al voto, espresso molto spesso su base emotiva, non corrisponda una capacità di decisione politica e questo a prescindere dalle intenzioni programmatiche, spesso debordanti e, corrispondentemente, deludenti. I cittadini hanno la sempre più ampia convinzione che la politica abbia smesso di esercitare il suo ruolo. C’è una crisi della rappresentanza che toglie l’erba sotto i piedi della democrazia. La scelta sulle riforme costituzionali deve avere come finalità indispensabile il rafforzamento della rappresentanza e del ruolo della politica. Al di là delle riforme costituzionali in discussione e delle difficili, ma possibili, convergenze, c’è la necessità di prenderne atto e di collocare la discussione sulle riforme istituzionali in un orizzonte nuovo, sul quale misurare quanto il Paese possa camminare in un percorso di concordia nazionale per la difesa e lo sviluppo della democrazia.

Pietro Giubilo




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