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17/04/2023
L’impossibile ‘centro’ di Renzi e Calenda
Il “nuovo” partito si è palesato senza una vera identità e con il massimo del personalismo.

Nell’osservare e commentare la “sceneggiata” del mancato partito unico tra Azione e Italia Viva, occorre chiarire alcuni presupposti che, ancor prima dell’esito negativo della trattativa, hanno condizionato sin dall’inizio tutta l’operazione politica. Questa aveva avuto l’ambizione di costruire un “Terzo Polo” che, tuttavia, sin dall’inizio si era presentato come uno spazio più capace di tattica che di strategia, di stringere alleanze contingenti e diversificate e di rappresentarsi e di definirsi “centro” proprio per tali connotati politici. A luglio del 2022 Galli della Loggia, in un articolo intitolato “Il Centro senza identità”, scriveva che “proclamarsi ‘di centro’ non serve a nulla. Serve avere qualche idea “, e aggiungeva: “anche dirsi moderati in Italia non significa granché”, concludendo: ”oggi la collocazione centrista non possiede alcuna valenza ideologica forte, non rappresenta alcun carattere identitario vero”. Vale la pena, a questo proposito, ricordare che quello che si ritiene, storicamente, essere stato il più grande partito di centro, cioè la Dc, non esaurì mai la sua identità politica attraverso una definizione, tutto sommato, “geometrica”, cioè di sola distanza e autonomia dalle posizioni estreme, rivendicando invece il suo carattere identitario, popolare e cattolico sociale. In buona sostanza non si può non condividere quanto affermato a suo tempo da Gianfranco Rotondi, per il quale “in Italia esiste una questione popolare, non una questione centrista”. Anche i cosiddetti partiti centristi (PLI, PRI, PSDI), si caratterizzarono, innanzitutto, per essere frutto di culture politiche che si ispiravano al liberalismo, al repubblicanesimo risorgimentale o al filone storico socialdemocratico. Il linguaggio e le definizioni nella cultura politica contano e mostrano il segno dei tempi.

Sempre nel luglio dello scorso anno, Mauro Magatti osservava in un editoriale su “Avvenire” che “quello che nel linguaggio politico si chiama ‘il centro’ appare un rissoso arcipelago di personalismi, nel quale ciascuno parla la propria lingua nell’incapacità di rappresentare una proposta politica che sia all’altezza delle sfide che abbiamo davanti”. Questa valutazione spiega come la difficile impresa di costruire un’area politica, o meglio, un partito, richieda qualcosa di più dell’abilità manovriera di una singola personalità. E’ vero che con la cosiddetta seconda repubblica ci si è avviati su questa china, ma la novità, starebbe nella capacità di introdurre nel sistema politico il superamento di tale limite, altrimenti tutto rimane in un quadro di personalismi instabili e litigiosi, spesso, incapaci di riproporre confronti seri e coesioni programmatiche valide. Ora, per la verità, oltre a queste debolezze intrinseche, diremmo strutturali, siano anche difronte a una dicotomia che rende più difficile ipotizzare un futuro positivo per un’area politica che non si arrenda alla risorgente tendenza bipolare. Siamo da tempo in presenza di una preoccupante divaricazione sistemica. Infatti, a fronte dello svilupparsi di cambiamenti epocali, di risorgenti conflitti, dell’acuirsi delle diseguaglianze e delle precarietà sociali che stanno caratterizzando l’attuale fase postglobale, la “cessione di sovranità”, ormai palesemente effettuata dalla politica, condizionandone la rappresentatività, ha prodotto, in Italia, uno schematismo politico-istituzionale sostanzialmente bipolare, nel quale appare ridotto lo spazio di quella pluralità culturale e rappresentativa a base dell’esistenza di partiti e identità diverse, come peraltro nella storia d’Italia si era palesata sin dalla sua unificazione.

Si comprende, in questo quadro, il perché, sia nella coalizione di centrodestra che in quella di sinistra, tendano a prevalere posizioni più marcate e identitarie; a destra con Fratelli d’Italia, largamente maggioritario se non egemone, e a sinistra con l’elezione al vertice del PD di una segreteria assai caratterizzata sui “nuovi diritti” che, oltre a sconfiggere la vecchia “ditta” postcomunista, ha emarginato ciò che restava del cattolicesimo democratico, a suo tempo approdato a sinistra con i progetti Margherita e Ulivo. Al suo interno anche sponenti di tradizione dem affermano che “nelle prime scelte di Schlein … il mondo cattolico non è rappresentato”. Questo contesto rende ancor più severo il giudizio sulle vicende della mancata unificazione tra le formazioni politiche costituite da Renzi e Calenda. Nel suo fallimento si può rintracciare una verità. Il “nuovo” partito non avrebbe rappresentato una novità; si è palesato senza una vera identità e con il massimo del personalismo, non in grado di ”correggere” un sistema che si inoltra nel bipolarismo, e né, quindi, di dare vita a un “centro”. Diremmo: “missione impossibile”. La banalità della polemica ha, poi, fatto il resto. Ad una limitatezza culturale e politica, si è aggiunta, con modalità determinante, una diffidenza reciproca. Significativo che a far scattare il diniego a continuare nell’operazione di unificazione, sia stata la preoccupazione di Calenda per la volontà di Renzi di non annullare gli incontri della Leopolda e di assumere la direzione del quotidiano il Riformista. Ciò significa che anche un’attività di convegni politici, con carattere correntizio, ma propositivo e un organo di stampa per la discussione politica, possono costituire , più o meno strumentalmente, elementi estranei alla natura delle forze politiche ed al loro contesto. E’ sceso il sipario e si è archiviata una vicenda nella quale c’è stato poco o nulla di politico e molto, troppo, di personalismi e di inadeguatezza.

Pietro Giubilo




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