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14/04/2023
Gli effetti dell’inflazione secondo il FMI
La politica fiscale può essere di supporto alla politica monetaria nell'affrontare l'inflazione.

Uno studio recente pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) contenuto nel ‘Fiscal Monitor’ di aprile ci aiuta a comprendere gli effetti dell'inflazione sulle diverse fasce di reddito della popolazione e su come la politica fiscale possa essere utilizzata per contrastarne in parte gli effetti negativi. Il ‘Fiscal Monitor’ è un rapporto semestrale nel quale il FMI passa sotto la lente di ingrandimento gli sviluppi recenti delle politiche di bilancio attuate dai paesi membri e analizza le sfide che hanno di fronte i ‘policymaker’. Negli effetti dell’inflazione bisogna distinguere tra: i) inflazione attesa: annunciata in anticipo; e ii) inattesa: ovvero la componente di sorpresa che le famiglie e le imprese non hanno incorporato nelle proprie aspettative. Ricordando che solo l’inflazione inattesa è benefica per chi ha contratto un debito perché permette di eroderne il valore reale a discapito di coloro che possiedono i titoli, ma per un tempo limitato. Questo perché ogni aumento di inflazione viene poi incorporato nei tassi richiesti sul mercato, aggiustandosi in base alla durata del debito. Interessante come gli estensori dello studio confrontino due diversi livelli di debito pubblico: maggiore o minore del 50% sul Pil, giungendo alla conclusione che i debiti pubblici superiori alla soglia considerata risentono di più dell'impatto di erosione dato dall'inflazione inattesa. Per ogni punto di "sorpresa" nel rialzo dell’inflazione il debito pubblico viene ridotto dello 0,6% e l'effetto si cumula per svariati anni. Vengono poi elencati poi una serie di effetti collaterali, ne consideriamo quattro: 1) il rialzo dei prezzi alimentari ha un effetto maggiore sulle famiglie a basso reddito, essendo che una gran parte di esso viene destinato al consumo. Ed è molto più pronunciato in paesi a basso reddito come l’Italia; 2) l'inflazione erode i redditi reali dei paesi importatori di materie prime; 3) l'inflazione ha avuto un impatto marcato sul potere d'acquisto delle famiglie visto che i salari non sono stati in grado di tenere il ritmo dell'aumento dei prezzi; 4) l'effetto è diverso per classi di età: le famiglie giovani tendono ad essere più indebitate di quelle più adulte, implicando pertanto un effetto positivo sul lato della ricchezza in quanto creditori.

I debitori, infatti, soprattutto nei paesi con mercati finanziari e creditizi più sviluppati, hanno visto la loro posizione migliorare a scapito dei detentori di ricchezza. Incidentalmente, il rapporto nota come, almeno nel breve periodo, questo contribuisca ad alleviare la pressione sulle finanze pubbliche. Condividendo l’attuale politica monetaria restrittiva delle Banche Centrali, gli estensori del ‘Fiscal Monitor’ ritengono necessaria questa scelta per comprimere la domanda aggregata. Essi raccomandano poi che non sia solo la politica monetaria a mettere il piede sul pedale del freno ma anche quella fiscale (di bilancio), in modo da limitare l'aumento dei tassi di interesse (se la frenata è modulata tra il pedale monetario e quello fiscale: ognuno dei due deve essere schiacciato di meno). Nella scelta del "policy mix" gli estensori del ‘Fiscal Monitor’ condividono il modello a “imbuto" della scuola di Yale (funnel model) del premio Nobel James Tobin: lo stimolo o la restrizione proviene da due rubinetti, M (monetario) e F (fiscale), ma l'impulso che affluisce nell'economia è indipendente dai contributi relativi di M e F. Lo stesso stimolo o restrizione aggregato/a (ovvero la domanda nominale) può essere generato tramite moneta a buon mercato e un bilancio pubblico austero, o il contrario. Per le ragioni appena esposte, la stabilità dei prezzi, finanziaria e macroeconomica pone una complementarietà tra politica monetaria e fiscale. Le Banche Centrali devono perseguire la stabilità dei prezzi nel medio e lungo termine. Mentre le Autorità Fiscali devono garantire la sostenibilità del debito, adeguando le proprie politiche in modo coerente con gli obiettivi di inflazione della banca centrale: in pratica, il governo deve aumentare in modo credibile e con sufficiente intensità l'avanzo primario strutturale in risposta a qualsiasi aumento dello stock di debito.

Ci sono buone ragioni per attenersi a queste prescrizioni politiche nell'attuale contesto di alta inflazione e debito elevato. In primo luogo, anche se l'inflazione inaspettata può fornire qualche sollievo fiscale a breve termine, come accennato sopra, cedere a un regime di inflazione elevata e variabile alla fine porta i mercati ad addebitare un premio di inflazione, cioè tassi di interesse più elevati. Quindi è destinato ad aumentare i costi di indebitamento del governo e peggiorare le prospettive fiscali. Di avviso diverso sul ‘policy mix’ per la cronaca erano a Chicago: niente imbuto a miscelare gli effetti della politica monetaria e di quella fiscale e Rudiger Dornbusch la ricorda così: “E poi venne il giorno in cui [Robert] Mundell presentò in una stanza piena, ma proprio piena, la sua nuova teoria del policy mix, politica monetaria per la stabilità dei prezzi, politica fiscale per la crescita basata sull’economia dell’offerta. Basterà ricordare che fu un pomeriggio molto chiassoso.” Ma noi stiamo con quelli di Yale. In conclusione, la politica fiscale può essere di supporto alla politica monetaria nell'affrontare l'inflazione e mitigarne gli effetti. Una combinazione di questi due strumenti permette alla politica monetaria di evitare rialzi dei tassi troppo alti per contenere l'inflazione. Dal 1985, nelle economie avanzate ogni riduzione di spesa pubblica di un punto percentuale produce una riduzione nell'inflazione dello 0,5%, con la fascia di redditi più bassa che ne beneficia di più se associato a generosi trasferimenti che attutiscono la riduzione aggregata dei consumi.

Marco Boleo




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