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10/12/2022
Non c’è alternativa al rialzo dei tassi
Oltre alla manovra sulla struttura dei tassi d’interesse e sulla liquidità, è necessario prendere impegni vincolanti sulle proprie azioni future.

Nel dibattito sulle strategie di politica monetaria attuate negli Usa e nell’Eurozona alcuni analisti affermano che la BCE non debba seguire la Fed perché in Europa l’inflazione ha una natura diversa da quella d’oltre oceano: in America c’è, infatti, un’inflazione da domanda generata dagli stimoli eccessivi dei Governi Trump-Biden mentre nel vecchio continente ve n’è una da offerta (per il rincaro dei combustibili fossili) perlopiù importata. L’inazione della Banca Centrale di fronte ad un’inflazione da offerta è quello che si riteneva giusto negli anni settanta dopo gli shock petroliferi. Successivamente la storia economica di quel periodo ha mostrato che fu un grave errore: la politica monetaria deve contrastare gli shock da offerta. Per le seguenti ragioni. In primo luogo, se l’inflazione raggiunge livelli come quelli che stiamo sperimentando, attorno al 12%, e la Banca Centrale Europea non interviene, i rendimenti reali delle attività divengono negativi. Provocando una diminuzione del risparmio ma non dell’investimento che, contrariamente, coi tassi d’interesse reali negativi subisce, a parità di condizioni, uno stimolo. Ne segue che l’eccesso di domanda tende ad aumentare, con un ulteriore impulso all’inflazione. Ma a questo punto qualche esponente della Nuova Macroeconomia Classica potrebbe obiettare che se valgono le aspettative razionali, gli operatori economici dovrebbero guardare solo al futuro e l’inflazione attesa dovrebbe essere indipendente da quella passata. Vero. Ma sarà estremamente improbabile che l’inflazione nei prossimi due anni scenda al 2% e che l’inazione scoraggi la componente dell’inflazione core che incorpora aspettative forward-looking. Questo comporta che non vi siano delle differenze tra il processo inflazionistico europeo e quello americano. L’inflazione ‘core’ in Europa, al netto dei beni alimentari e energetici, infatti, è oltre il 4% ed il mercato del lavoro è vicino all’occupazione raggiunta prima della pandemia. Questi due segnali fanno pensare ad una componente dell’inflazione da domanda da non sottovalutare.

Ma differentemente da quanto accade negli Stati Uniti, in Europa i salari non stanno crescendo visto che la maggior parte dei contratti sono stati rinegoziati l’anno scorso e hanno validità triennale. Ne deriva pertanto che l’eccesso di domanda di lavoro non determina un aumento dei salari ma comporta una difficoltà delle imprese nel reperire manodopera. Non basta però a scongiurare l’aumento dei tassi d’interesse. Nel caso che la Fed aumenti i tassi d’interesse e che la BCE lasci fare senza reagire, questa scelta, a parità di condizioni comporta un deprezzamento del tasso di cambio dell’euro nei confronti del dollaro, il che acuisce il problema dell’inflazione importata. Fermo restando che l’inflazione da offerta mette i sistemi economici di fronte ad un trade-off (scambio) tra inflazione e produzione. Ma per le Banche Centrali restare a guardare l’aumento dell’inflazione senza intervenire non è ottimale. Devono aumentare i tassi nominali per far salire quelli reali, rilevanti per la domanda aggregata (consumi + investimenti). Qual è il fondamento teorico di questo comportamento? Supponiamo che le autorità monetarie permettano al tasso di interesse reale di diminuire a fronte di un aumento dell’inflazione. In questo caso l’accelerazione dell’inflazione si tradurrebbe in un calo del tasso di interesse reale, che a sua volta provocherebbe un aumento della domanda che darebbe un ulteriore impulso all’inflazione, che comporterebbe una nuova caduta del tasso di interesse reale e un nuovo aumento della domanda. Il risultato è che l’inflazione continuerebbe ad accelerare finendo fuori controllo.

Questo è esattamente ciò che è accaduto negli anni settanta. Pertanto è ottimale che la banca centrale aumenti i tassi d’interesse nominali in presenza di uno shock d’offerta, in modo da rendere positivi quelli reali che dipendono dall’inflazione attesa. In presenza di uno shock di offerta è pertanto sbagliato restare a guardare ma è necessario per i policymaker trovare la combinazione meno costosa tra maggiore inflazione e minore crescita. Questo è il nodo gordiano da sciogliere. La teoria monetaria ci dice che l’inflazione da offerta va contrastata ma il problema è come farlo. Cruciale è la gestione delle aspettative di inflazione. Di conseguenza oltre alla manovra sulla struttura dei tassi d’interesse e sulla liquidità è necessario prendere impegni vincolanti sulle proprie azioni future per curare gli effetti sull’inflazione degli shock da offerta. Questo perché l’economia può stabilizzarsi in un equilibrio di medio lungo periodo a qualunque livello di inflazione effettiva, dato livello di inflazione attesa. Quando l’aumento dei prezzi, che incidono sui costi di produzione, si sarà riassorbito e la produzione si stabilizzerà al suo livello naturale, a quel punto l’inflazione effettiva sarà uguale a quella attesa. Pertanto il tasso di inflazione corrispondente a ciascun livello di produzione varia nel tempo al variare del tasso di inflazione attesa. Quanto maggiore è il tasso di inflazione attesa, tanto maggiore è il tasso di inflazione effettivamente associato a ciascun livello di produzione. Ecco perché bisogna continuare ad alzare i tassi d’interesse: non solo per contrastare l’inflazione ma anche per tenere ancorate le aspettative. Se ciò si verifica, non è detto che bisogna per forza mettere sul piatto una cospicua riduzione del Pil per conseguire un contenimento dei prezzi. E questo sarà il risultato più probabile se le aspettative d’inflazione non si disancorano. Ecco perché l’aumento dei tassi continua ed essere necessario e non procrastinabile. Pena future politiche monetarie più restrittive per tentare di riancorare le aspettative.

Marco Boleo




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