PRIMO PIANO
16/06/2022
Le molte indicazioni del voto del 12 giugno
Gli importanti referendum sulla giustizia dimostrando ancora una volta la disattenzione degli elettori per queste consultazioni.

La scarsa partecipazione al voto ha trovato una ulteriore conferma il 12 giugno. A poco serve sottolineare il fatto che si sia votato in un solo giorno; semmai sarebbe da considerare la possibilità di far svolgere le votazioni in periodi meno esposti al fenomeno dell’abbandono nei week end delle città di residenza e, quindi, del voto, che si palesa soprattutto  dopo la fine dell’anno scolastico. Questa desertificazione elettorale, tuttavia, ha origine e spiegazioni assai complesse che richiederebbero innanzitutto la presa di coscienza che, con tale grave  fenomeno, si rende debole il sistema democratico, con il preoccupante prevalere di altre logiche e di altri poteri. Gli importanti referendum sulla giustizia ne sono stati la prima vittima, dimostrando ancora una volta la disattenzione degli elettori per queste consultazioni; tanto, probabilmente, da far pensare all’impraticabilità di tale importante istituto democratico se non si abbassa il quorum per la sua validità.  Ciò lascia l’amaro in bocca pensando come tale forma di consultazione determinò l’assetto istituzionale repubblicano della democrazia italiana nel 1946; senza contare che con i referendum  si tentò, invano, di contrastare leggi che ratificarono il mutamento del costume  italiano come le opinabili norme sull’aborto e, sempre con una svolta referendaria, venne modificata la legge elettorale che, insieme ad altri fattori, aprì le porte al  mutamento radicale  del clima politico, avviando la nascita di quella che venne chiamata la “seconda Repubblica”. Momenti decisivi nella storia contemporanea dell’Italia. Di tale istituto, alla Costituente, fu sostenitore Costantino Mortati contro le diffidenze di Lelio Basso; come dire, difeso quindi dal popolarismo politico, a cui si oppose la diffidenza della sinistra. Quella cultura popolare riteneva, come ha sottolineato in proposito il professor Cesare Mirabelli che “la democrazia diretta svolge una funzione importante anche in una democrazia parlamentare, a prevenire i rischi di deriva autoritaria, sempre possibile”. 

Desta preoccupazione anche la poca partecipazione al voto in molti comuni, anche se non tutti,   per il rinnovo dei sindaci e dei consigli comunali. Anche questa non è una novità, tuttavia il trend sembra accentuarsi. Come ha sottolineato Marco Tarquinio“ si accelera uno svuotamento di fiducia e di partecipazione nel serio gioco democratico”. Probabilmente anche negli enti locali, laddove cioè la  rappresentanza riesce ad esprimersi e, a volte, si manifestano “sorprendenti consensi su candidati sindaci”,  si soffre per una ridotta partecipazione, innestata probabilmente, oltre che dalle difficoltà di governo delle città, anche dall’accentramento  di potere che si sta verificando nel sistema politico. Anche a livello locale viene trasmessa la sensazione che la politica e le sue istituzioni sempre meno dipendono dalle scelte dei cittadini; anzi sempre più aspetti della vita quotidiana appaiono determinati da poteri e interessi che esulano , fino a giungere al contrasto, dalle  attese e spesso dalle stesse indicazioni degli elettori. Non possiamo non ricordare come, con lo “stato d’eccezione” per la  pandemia, si sono potute sospendere  norme che regolavano aspetti costituzionali della vita dei cittadini, con lo strumento normativo dei DPCM, decreti addirittura in capo al solo premier e non  esaminati dal Consiglio dei Ministri e neppure  sottoposti alla firma  presidenziale ed alla ratifica del Parlamento. Sul piano più squisitamente politico e dei rapporti tra i partiti  cosa emerge dal voto del 12 giugno?

Innanzitutto la sollecitazione bipolare che ha caratterizzato queste elezioni non scorre senza ostacoli. Ad iniziare  dal “campo largo”, cioè l’alleanza tra il Pd e il M5Stelle che  non sta dando i frutti sperati e, probabilmente, potrebbe spingere Conte a rivedere la strategia di una alleanza a sinistra. Il M5Stelle, infatti, piombato al 5 per cento  non pare avere alternative ed il baratro di un suo annullamento appare sempre più vicino. Il Nuovo Ulivo, riedito con l’assorbimento dei grillini con il quale aveva esordito Enrico Letta, è oggettivamente impraticabile e l’attenzione potrebbe andare verso un nuovo centrosinistra recuperando Calenda e sperando in qualche altra fuoruscita centrista. La disponibilità del leader del Pd per una legge elettorale proporzionale mira, appunto, a rimescolare le carte, ma i tempi sono ormai troppo stretti e, soprattutto, Tajani non sembra dare spazio all’ipotesi di nuove regole elettorali. Il centrodestra, forse per la prima volta, mostra, in modo chiaro, di tenere ed anche avanzare proprio negli enti locali che per molto tempo sono stati la sua frontiera più difficile. La vittoria nei tre capoluoghi di regione (Genova, L’Aquila e Palermo), la elezione al primo turno di nove sindaci, contro i tre del centrosinistra,  ne sono  il segno più significativo, con particolare evidenza per la “capitale” siciliana, ove alle difficoltà della vigilia per la presentazione delle liste è seguita una qualificata soluzione unitaria, fortemente ispirata dall’area moderata del centrodestra, soprattutto l’Udc. Quello di Palermo rappresenta un esito indicativo non solo per i prossimi appuntamenti elettorali nell’isola, ma come metodo di lavoro per le candidature che potrebbe far voltare pagina rispetto alla inadeguatezza delle scelte della tornata amministrativa di ottobre a Roma e Milano. Metodo che si è potuto esprimere anche nella Liguria ove il governatore Toti è riuscito nel difficile compito di tenere unito il centrodestra tradizionale, ottenendo, nel contempo, l’appoggio di altre   componenti centriste (Renzi e Calenda), in qualche modo, orientate diversamente in altre regioni.  

Resta una differenza non priva di indicazioni tra i due “poli” che può comportare una fragilità nella coalizione di centrodestra, soprattutto quando si voterà per le elezioni politiche. Mentre a sinistra si rafforza la dominante del Partito Democratico, con un effetto sostanzialmente stabilizzante, anche se con un eccesso di iattanza (Letta: “Pd primo partito”), nel centrodestra la prevalenza di Fratelli d’Italia, anche qui con  troppo autoreferenzialità (Meloni: ”noi la forza trainante, gli alleati escano dal governo”), determina uno squilibrio rispetto al peso di quella componente che viene definita “moderata”, producendo tensioni e spaccature, come avvenuto in alcuni importanti comuni. Una diversificazione di candidature che porta alla sconfitta. E se pur il consenso di tali componenti appare inferiore rispetto a quello della destra, la sua importanza deriva dal fatto che forze politiche centriste sono il riferimento di settori dell’elettorato che, spostandosi, possono diventare determinanti per il successo di una delle due coalizioni. Tajani è stato molto chiaro in proposito. Per il futuro del centrodestra sarà un tema cruciale. Al momento, infatti, il quadro politico non sembra, comunque, riuscire a superare la pur instabile dialettica bipolare. Non emerge uno schema alternativo. I commenti prevalenti su questa tornata elettorale, infatti, sottolineano, con una sintonia forse eccessiva, il concetto che solo l’unità delle coalizioni ne assicuri il successo, mentre la loro scomposizione renderebbe più difficile a tutti il cammino politico. I mesi che separano dalle elezioni politiche, tuttavia, saranno caratterizzati da immensi problemi interni (dalla crescita dell’inflazione alle difficoltà sociali) ed esterni (guerra e mercati finanziari) che potrebbero accentuare le difficoltà del quadro politico ed anche  istituzionale. Forse più da tali problemi e dalla necessità di affrontarli adeguatamente, che dalle indicazioni elettorali del 12 giugno, si determinerà il cammino del futuro prossimo del Paese.

Pietro Giubilo

 




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