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07/10/2013
Una società capace di accogliere è una società che fa proprio il grido 'vergogna, vergogna' del Papa
Programmi d'intervento nei Paesi di origine è la prima forma d'aiuto per i profughi

L’ennesima strage si è consumata in mare, mentre ancora risuonavano le forti parole di Papa Francesco pronunciate a Lampedusa lo scorso luglio. Questa immane tragedia ha scosso ciascuno di noi da quella “globalizzazione dell’indifferenza” che caratterizza la nostra ovattata cultura. La morte di così tanti profughi ci ha costretti a guardare a quello che sta accadendo e a riflettere sul quell’irreversibile ed epocale fenomeno che è l’immigrazione. Di fronte alle immagini dei corpi recuperati dal mare è chiaro come il dibattito politico su questo tema  non sia in grado di rispondere alla realtà concreta, poiché caratterizzato da una polarizzazione che non è capace di guardare la complessità delle migrazioni.

Quanto avvenuto nel nostro mare non è che il tragico epilogo di un viaggio della disperazione che ha inizio in territori spesso martoriati dalla guerra (il numero di profughi siriani in arrivo in Italia è in costante aumento) o nei quali le condizioni sociali ed economiche non danno alcune speranza per il futuro. Dietro tutto questo c’è la presenza di una nuova forma di sfruttamento, di un nuova tipologia di schiavismo che lucra sulla disperazione di chi si vede costretto ad abbandonare la propria casa. È evidente il legame tra la pace, lo sviluppo e le migrazioni.

Predisporre programmi d’intervento nei paesi di origine, sia di carattere specifico sia contribuendo a creare un clima di pace e di sviluppo, è la prima forma d’aiuto che si può dare ai profughi. La cooperazione internazionale, l’impegno costante per la pace (soprattutto nel Medio Oriente) sono i principali strumenti per venire incontro ai bisogni dei popoli. Allo stesso tempo occorre contrastare in ogni modo possibile qualsiasi forma di sfruttamento. Questo chiama in gioco sia il diritto internazionale (e come renderlo effettivo) sia le leggi nazionali. Non occorre solamente combattere i trafficanti di esseri umani, tra i quali gli “scafisti” rientrano a pieno titolo, ma anche quanti sfruttano il lavoro irregolare delle persone immigrate. La lotta all’emersione del lavoro nero ha come principale scopo quello di garantire a chiunque il rispetto della proprio dignità di persona e di persona che lavora, di garantire un lavoro svolto in sicurezza e di garantire un adeguato trattamento di welfare. In questo frangente un ruolo importante può essere svolto da quelle associazioni, da quei movimenti che hanno la possibilità di attuare nei paesi di emigrazione dei programmi di formazione e di ricerca del lavoro nel nostro paese, al fine di dare una speranza concreta agli immigrati nel nostro Paese di sottrarli ai mercanti di essere umani (come Mcl in Marocco, Eritrea, Romania, Moldova e Albania). È un percorso che coinvolge le istituzioni, la Chiesa, la società civile e che fa vedere come sia possibile costruire un canale legale, trasparente e virtuoso attraverso il quale l’accoglienza di chi emigra avviene fin dall’inizio.

Il primo sguardo da rivolgere all’immigrazione non è quello dei sociologi o dei demografi (che confermano come il tasso di clandestinità nel nostro Paese sia vistosamente calato attestandosi ad un fisiologico 6% sul totale della popolazione immigrata), né quello degli economisti o dei giuristi. Lo sguardo da imparare è quello di Lampedusa, della sua popolazione, delle sue istituzioni, della sua società civile, che pur nella grande difficoltà è diventata il simbolo della gratuità e dell’accoglienza. In questi giorni si fa sempre più forte la voce di chi vorrebbe che l’isola fosse candidata al premio Nobel per la pace, perché quello che sta facendo per i profughi è uno dei massimi esempi che oggi ci sono dell’impegno fattivo, concreto e non retorico in favore della pace. Lampedusa, però, non può essere lasciata sola, né può essere lasciata sola la Sicilia, né tantomeno l’Italia. La decisione di dichiarare il lutto nazionale per quanto è successo, al di là delle polemiche di basso profilo che certuni hanno pateticamente messo in piedi, significa riconoscere che la morte di centinaia di profughi non può lasciarci indifferenti, ma che riguarda tutta la nostra comunità. Sarebbe stato molto importante se all’Italia si fosse aggiunta l’Unione Europa, riconoscendo questa come una trageda europea poiché il fenomeno migratorio riguarda tutta l’Unione, ma ancora una volta il silenzio dell’Unione Europea è stato assordante. Scrollarsi di dosso l’indifferenza, come ci esorta incessantemente Papa Francesco, significa guardare le persone per quello che sono e non ridurle ad un nostra idea, in questo caso ad una nostra idea di “immigrato” che è lontana dalla realtà. È questo il rischio del dibattito che c’è in Italia, quello di non rendersi conto che l’accoglienza non si esaurisce con il rilascio dei documenti per vivere nel nostro Paese, né si esaurisce con l’ingresso degli immigrati nel nostro Paese.

L’accoglienza, quella vera, è molto di più, perché significa garantire una società sicura nella quale vivere (come gli stessi immigrati chiedono). Accoglienza significa dare la possibilità di far parte a pieno titolo della nostra comunità attraverso una sana integrazione che superi la logica della ghettizzazione, che è il modo supremo con cui il buonismo imperante, con la scusa del “rispetto”, può continuare a vivere nella “bolla di sapone” dell’indifferenza. Una società capace di accogliere è una società che fa proprio il grido “vergogna, vergogna” del Santo Padre, è una società che, guardando a Lampedusa, si fa carico delle tragedie non perché deve secondo il diritto internazionale o secondo il mandato di qualcuno, ma perché non vuole morire di indifferenza.

Giovanni Gut




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