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06/04/2022
A Roma povertà e voglia di riscatto
Il piano inclinato della povertà e del disagio sociale si è accentuato con la pandemia.

A Roma il mese di aprile è iniziato con la presentazione del consueto Rapporto della Caritas diocesana che quest’anno reca un titolo non enfatico, ma forse ed anche per questo, ancora più incisivo: “ Povertà a Roma: un punto di vista”. Il sottotitolo “False ripartenze?” spiega la principale preoccupazione dello studio e cioè che senza l’angolatura dell’esame della condizione sociale della città, senza l’ascolto di chi non ha voce, senza l’intervento di chi già se ne prende cura volontariamente, senza una maggiore operosità delle istituzioni, la Città e, soprattutto, coloro che sono ai margini, privi di ogni, anche minima, necessità, sono destinati a permanere nello stato nel quale si svolge la loro drammatica quotidianità. E le stesse opportunità che deriveranno dai fondi del Pnrr e del Giubileo del 2025, ai quali si aggiungerebbero quelli dell’Expo 2030, non recheranno adeguati benefici qualora ci si limitasse “a pensare solo alle opere”, come ha osservato il direttore Giustino Trincia, senza “puntare a ricostruire il tessuto sociale e il rapporto di fiducia tra persone e istituzioni”. Il Rapporto illustra come a Roma il piano inclinato della povertà e del disagio sociale si sia accentuato con la pandemia, anche se già preesistevano le disuguaglianze, gli squilibri territoriali tra centro e periferia, la larga fascia di povertà o di chi è in grande difficoltà, il “lavoro povero”, la denatalità, gli esclusi dal sistema degli aiuti, le famiglie in alloggi di fortuna. Tutto ciò, purtroppo, non esaurisce la grave criticità della questione romana. L’aspetto che ne rende ancor più difficile la condizione, è la crescita dell’ isolamento nel quale vivono gli “invisibili” e gli argomenti non mancano nel Rapporto per descrivere l’”equilibrio instabile” della Capitale: “c’è aria di sfiducia, smarrimento, incertezza per il futuro, diminuisce la speranza e aumentano la solitudine e la rassegnazione”.

Proprio quella solitudine nella quale è finita la durissima vita dei cinque senza dimora che sono morti a dicembre dello scorso anno e gli altri due che dormivano all’addiaccio, vicino alla Stazione Termini, uccisi dal freddo in questi giorni. Queste vite che si spengono in luoghi centrali e frequentati, dimostrano la fondatezza del significato che, qualche mese fa’, Francesco - che è anche il Vescovo di Roma - attribuiva al termine “periferie”, che non è solo urbanistico, ma riflette quelle del “nostro cuore, della nostra anima, della nostra società, della nostra città, della nostra famiglia, cioè quella parte un po’ oscura che noi non facciamo vedere forse per vergogna”. Sono queste distanze che crescono nella nostra vita di relazione uno dei mali – forse il più pernicioso – che impedisce di affrontare i problemi del riscatto della città, di stabilire le priorità, di riannodare i fili della convivenza, di centrare la dimensione personale e umanitaria del bisogno; richiederebbero, in sintesi, di porre a capo di ogni programma amministrativo il ripristino del senso comunitario del vivere a Roma. Un giovane manager e docente universitario, Francesco Del Zio, in una recente pubblicazione (“Liberare Roma”), ha scritto come sia “impossibile soltanto immaginare una rinascita di Roma senza prima aver affrontato e avviato a soluzione la grande questione del social divide, che oggi “separa in modo inconciliabile la cittadella dei ricchi dalle immense periferie della Capitale”. E non è una questione riferibile alla sola emergenza assistenziale, perché ad esempio, anche gli aiuti per una situazione di bisogno, non possono essere disgiunti – come l’Mcl ha indicato nel suo recente programma per Roma (“la città della solidarietà”) – da una integrazione nella vita del quartiere. Ed è la stessa logica delle opere pubbliche o degli interventi di recupero che sono efficaci solo se consentono ai quartieri periferici di conseguire il risultato di sentirsi e diventare città. Tutto ciò che dovrebbe ricostruire la relazione sociale, sia delle persone che dei pezzi di città, deve infatti partire dall’assunto che essa richiede una concezione che, come afferma Pierpaolo Donati, nella sua essenza, non può essere solo fisica, ma anche e soprattutto spirituale. Perché una comunità si fonda su tale presupposto.

Come sempre Giuseppe De Rita ne ha fatto una lucida analisi: ”A Roma c’è carenza della cultura della relazione … umana, sociale, culturale, economica, politica in senso ampio … è una città di isole assolutamente non collegate”. A Roma un tempo anche chi veniva da fuori “si sentiva come a casa propria”; ora chi ci vive dalla nascita percepisce solitudine e distanza. La soluzione di questo passaggio chiave per il riscatto da ciò che pesa e condiziona e rende Roma sempre a rischio di essere considerata una non Capitale è la questione del lavoro e dello sviluppo, a patto che non si considerino solo come retribuzione o economia, ma massimamente relazione, affermazione di capacità, crescita di opportunità, sicurezza per le famiglie e futuro per i giovani. Occorre un cambiamento del modo di presentarsi e di operare delle forze politiche e delle stesse amministrazioni, ove ormai la relazione si riduce a comunicazione, nullificando la rappresentanza e rendendola del tutto contingente. La comunicazione non valorizza i corpi intermedi, non li rende protagonisti, non ne raccoglie le istanze. La comunicazione, alla quale ormai si affidano in assoluto forze politiche e istituzioni, non raccoglie le istanze e la voce delle realtà, ma intende soprattutto convincerle e indirizzarle. Il Rapporto della Caritas, invece, ci riporta alla realtà, perché facendo emergere ciò che si nasconde e che , a volte, cerchiamo di cancellare, ci spinge ad affrontare le ragioni profonde di una condizione che, a volte, pur manifestandosi nel “corto raggio della cronaca e dei suoi abituali territori”(De Rita), non riceve quella attenzione e quella presa di coscienza necessarie per il riscatto della città.

Pietro Giubilo




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