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17/03/2022
Marco Biagi, il giuslavorista che voleva più flessibilità per avere più occupazione
Un ricordo a 20 anni dalla scomparsa

Marco Biagi è stato nei brevi anni di intensa attività professionale il protagonista del processo di riforma dello Statuto dei lavori, prima con Tiziano Treu e poi con Roberto Maroni e con Romano Prodi. La sera del 19 marzo 2002, all'età di cinquant'anni, Marco Biagi viene ucciso dalle Brigate Rosse, raggiunto da cinque colpi di arma da fuoco sul portone di casa. Perché un professore di diritto del lavoro, consulente del Ministero del welfare, sia stato eletto dal terrorismo a simbolo di un riformismo esemplarmente ostile e condannato a morte? Era l’anno 2013, nel mese di settembre, di fronte agli occhi lucidi dei minatori e dei disoccupati sardi, Papa Francesco grida per tre volte la stessa parola: «Lavoro, lavoro, lavoro» e poi aggiunge «Difendiamoci dai tanti parolai che promettono illusioni, da coloro che hanno uno sguardo avido di vita facile, di promesse che non si possono compiere». Sì, Papa Francesco aveva l’elmetto protettivo del minatore, dimostrava tutta la sua lucidità nel lanciare l’ennesimo messaggio di sveglia per tanti sordi… Oggi quel grido diventa un invito forte e sempre attuale ad affrontare urgentemente i problemi del lavoro e lo proponiamo nel ricordare l’assassinio del prof. Marco Biagi avvenuto ancor prima dell’incontro citato di papa Francesco. Come conciliare allora queste date che il tempo inesorabilmente declina e come mettere in pratica l’impegno assunto allora come oggi di fronte a due modelli da non sottovalutare. Le parole del Papa per noi sono un monito a mettere al primo posto l’impegno per il bene del Paese, il lavoro è davvero la nostra prima preoccupazione, anzi è al primo punto della nostra agenda.

Anche il prof Biagi era molto attento al mondo del lavoro, soprattutto nella realizzazione delle politiche attive da far rientrare tra le preoccupazioni del nostro Governo. Veloce nel rottamare le vecchie tutele, ma flessibile nel predisporre un moderno regime di ricollocazione per chi perde il lavoro. Dopo molte attese, e con non poche modifiche rispetto all’impianto originario, sembrava che il secondo pilastro del Jobs Act fosse l’elemento giusto del capitolo fondamentale sulle politiche attive, per il quale poteva essere uno dei fronti del 'mercato del lavoro’ in cui si registra amaramente una enorme distanza tra la legge scritta e la pratica quotidiana, ma anche la coscienza che alcune certezze che avevano guidato il Novecento industriale stavano rapidamente venendo a meno. Prima fra tutte l’idea che il medesimo posto di lavoro potesse riempire l’intera carriera di un lavoratore, che dopo la sua formazione entrava in una impresa e vi usciva solo una volta pensionato. Questo era reso possibile da mercati stabili, per i quali il ruolo stesso del lavoratore, visto come consumatore dei beni che egli stesso produceva, era proprio garanzia di stabilità. Si poteva produrre in maniera costante e controllata perché si conosceva e si governava anche la domanda dei beni, sia attraverso i salari che attraverso altri strumenti propri del sistema di Welfare pubblico. Entrato in crisi questo equilibrio, per molteplici ragioni (globalizzazione, sviluppo tecnologico, dinamiche demografiche e altro ancora) si è introdotta una notevole dinamicità all’interno dei percorsi professionali e oggi un ragazzo che si affaccia al lavoro sa bene che il posto fisso non può neanche vagamente essere contemplato nel suo orizzonte, ma che lo aspetta una carriera composta da diverse fasi.

La logica potrebbe essere quella di costruire strumenti per accompagnare i lavoratori nei sempre più frequenti periodi di transizione da un posto all’altro, valorizzandone le competenze e le attitudini e aiutando le imprese a individuare i lavoratori a esse necessari. Un grande aiuto viene oggi anche dalla tecnologia, con la possibilità di costruire potenti banche dati per l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro che ben potrebbero costituire l’infrastruttura di quella borsa nazionale del lavoro di cui si parla oramai da troppi anni. Purtroppo, non ci sono molte buone pratiche, in questo senso ne abbiamo viste ben poche, salvo esempi virtuosi di qualche regione italiana. Le numerose norme approvate sul tema, legge Biagi in primis, sono rimaste sistematicamente prive di attuazione pratica. E’ stato ucciso perché voleva tutelare i diritti degli invisibili, regolarizzare chi lavorava in nero; aveva in mente i ragazzi che non avrebbero trovato lavoro o che avrebbero faticato tanto per trovarlo; aveva in mente le donne che sono state licenziate perché non avevano tutele e aveva in mente chi perde l'occupazione a 50 anni, un'età in cui diventa difficile trovare un altro lavoro e continuare a mantenere la famiglia. Quello che ci possiamo augurare è che alla coscienza teorica della necessità di un sistema di politiche attive segua una vera azione politica e pratica che dia vita a un percorso che coinvolga tutte le persone di buona volontà che si occupano della grande emergenza del mercato del lavoro italiano. Concludendo, il prof. Biagi è andato avanti nonostante fosse pesantemente minacciato, perché riteneva fosse il momento giusto per mettere a punto queste encomiabili protezioni.

 

Gilberto Minghetti




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