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07/03/2022
Ucraina, l'interminabile tragedia dell'Europa
Occorre uscire dell’agire e dalla logica puramente militare. Questa è in grado di contribuire alla pace solo se si presenta come deterrenza.

L’invasione dell’Ucraina, i combattimenti, il numero crescente delle vittime civili, i rischi del nucleare, le distruzioni materiali e la loro immediata rappresentazione attraverso i canali mediatici fanno scattare in ogni “spettatore” la riprovazione per ciò che sta accadendo e un immediato moto di solidarietà per le sofferenze di un popolo che fino a qualche giorno fa’ viveva come tutti noi ed ora invece sente di essere in bilico tra la vita e la morte. E tuttavia, oltre questa vicinanza nella sofferenza, emergono, in chi ricerchi una spiegazione per quello che sta accadendo, domande piena di angoscia: come mai non si è potuto evitare che maturasse e si verificasse, poi, questa tragedia? Perché, pur intuendo le intenzioni di difesa e ripristino di una volontà di imperio da parte di Mosca e ben sapendo che l’Occidente non avrebbe potuto usare i mezzi militari per difendere Kiev, non si sia riusciti, con la diplomazia, a salvaguardare una condizione di pace, evitando che la situazione precipitasse fino a questo punto? Queste domande che, pur soffrendo per le vittime innocenti, ci dobbiamo porre - per evitare ciò che Leonardo Becchetti su Avvenire di venerdì 4 marzo ha ventilato come il pericolo incombente e cioè il “gran gorgo di una escalation” bellica - incrociano il vero dilemma a cui, ora, ci si trova di fronte. Non quello indicato forse inavvertitamente – come spesso accade al Presidente Biden - di recintare la scelta tra “sanzioni o terza guerra mondiale”, ma più realisticamente quello di scegliere tra guerra e pace e, quindi, di tentare ogni sforzo possibile per fermare la guerra e ristabilire la pace.

La dialettica tra le forniture militari a Zelensky e l’allerta nucleare di Putin, spinge sul piano inclinato del prolungamento del conflitto e oltre. La stessa, pur doverosa, esaltazione dell’eroismo dei combattenti di Kiev, mentre prosegue la lenta ma costante avanzata dei russi, significa continuare ad aggravare le sofferenze e il bilancio dei morti, senza neppure tentare di scorgere la fine di un tunnel del quale non si conosce né l’uscita, né la lunghezza. Occorre uscire dell’agire e dalla logica puramente militare. Questa è in grado di contribuire alla pace solo se si presenta come deterrenza. Si vis pacem para bellum, versione antica del moderno equilibrio del terrore nucleare, induceva alla responsabilità. Le sanzioni possono esercitare la stessa funzione se riportano alla ragionevolezza. La storia, peraltro, insegna che queste sono state sempre la premessa del conflitto mai della pace. In tutti e due i casi pur nel crescere delle difficoltà, come recita l’editoriale del quotidiano della Cei, “per interrompere la catena di morti e sofferenze bisogna puntare immediatamente a un punto di equilibrio che non umili neanche l’aggressore”. Parole coraggiose, difficili da accettare, ma che guardano al primato della vita. Gli eroi morti sono sempre vite cancellate. E aggiunge, Becchetti, aprendo uno squarcio su uno sfondo storico che sembra essere stato dimenticato come una inutile profezia: “Henry Kissinger sosteneva da tempi non sospetti che la pace in Ucraina sarebbe stata possibile con le due “F”; finlandizzazione e federalismo”. Questo inaspettato riferimento dell’editorialista di Avvenire ci suggerisce di andare a rivedere quanto l’ex Segretario di Stato di Richard Nixon scrisse in proposito il 5 marzo del 2014 sul Washington Post: “Considerare l’Ucraina come parte del confronto est-ovest, spingendola a far parte della NATO, equivarrebbe ad affossare per decenni ogni prospettiva d’integrare la Russia e l’Occidente – e in particolare la Russia e l’Europa – in un sistema di cooperazione internazionale”.

Quello che è decisivo per comprendere gli esatti termini del problema è richiuso nell’inciso, cioè in quel rapporto tra “Russia ed Europa” che è la vera questione al centro di ciò che sta accadendo. Infatti l’Ucraina dopo la fine del sistema internazionale dell’Europa dell’Est con al centro l’Unione Sovietica, aveva manifestato, come del resto gran parte dell’area geografica orientale, la tendenza ad essere attratta dall’Europa occidentale, come evasione da una storia di invasioni e sofferenze e, soprattutto, per esigenze di carattere economico non disgiunte da influenze culturali e di costume. Su tale terreno, oltre alla diffidenza di Mosca, tuttavia, si evidenziò una inadeguata risposta di alcuni paesi della Unione Europea. Va ricordato come esemplare l’esito del referendum dell’aprile 2016 con il quale l’Olanda bocciò a grande maggioranza l’accordo politico-commerciale che era stato firmato dall’U.E. come premessa per l’ingresso di Kiev negli organismi comunitari. In altri termini, mentre lo sviluppo di un avvicinamento economico tra Europa e Ucraina venne arrestato o quantomeno ritardato, si ripiegò - soprattutto su sollecitazione degli Usa - sulla perigliosa strada dell’ingresso della ex provincia dell’URSS nelle strutture militari della Alleanza atlantica, avviando un percorso conforme a quanto compiuto nelle altre nazioni ex Patto di Varsavia, che non poteva non determinare, in prospettiva, una risposta da parte di Mosca incentrata anch’essa sugli aspetti militari.

Se questa linea di Washington si innestava in un costante paradigma geopolitico, è invece venuta a mancare proprio quella iniziativa ad ovest del Danubio che avrebbe dovuto puntare ad una integrazione europea di Kiev da condursi, per la sua peculiarità, sul solo piano economico e quindi senza suscitare pericolose preoccupazioni ed arroganti risposte militari del Cremlino. Questo passo avrebbe potuto rappresentare un “ponte” verso una integrazione più vasta. In fondo, l’interesse europeo sarebbe dovuto essere duplice: da un lato continuare la sua espansione economica, dall’altro evitare di integrarsi nelle logiche geopolitiche americane che verso la Russia mantengono il primato di una opzione militare rispetto a quelle di integrazione nell’Occidente, come anche sottolinea la sopra menzionata tesi di Kissinger. Questa Europa assente rappresenta senz’altro l’area geografica che dovrà subire i maggiori danni economici per la guerra e per la stessa cintura sanzionatoria nei riguardi di Mosca. Qualcuno inizia a rimpiangere la cauta e responsabile azione intereuropea di Angela Merkel che si adoperò sul caso ucraino giungendo agli accordi di Minsk e che, non a caso, suscitò qualche perplessità a Washington. Nell’ ambito europeo si segnala anche la mancanza di una iniziativa dell’Italia che negli stessi anni difficili della guerra fredda e del regime stalinista, si rese evidente per favorire condizioni che allontanassero i pericoli di conflitti. La politica estera italiana non si è mai trincerata nel solo ambito di una lettura militare dei rapporti tra est e ovest.

Sarebbe interessante andare a rileggere il dibattito che, nel lontano marzo del 1949, accompagnò, nell’ambito della Democrazia Cristiana, l’adesione al Patto Atlantico con le perplessità di autorevoli esponenti quali Giuseppe Dossetti (accettata come solo blocco difensivo, ma nel quadro di un processo di unificazione autonoma dell’Europa), Giovanni Gronchi (critico per l’aspetto politico della mancata negoziazione per cui nulla era stato ottenuto per gli interessi nazionali e citò Trieste e le colonie), Gino Del Bo (ispirato ad una visione neutralista e a patti militari bilaterali), Fernando Tambroni (indicò la mancanza di una prospettiva italiana nel patto per una azione tendente alla distensione fra i blocchi). La storia sostanzialmente ha dato ragione a De Gasperi che volle l’Ingresso dell’Italia nel patto, mentre le remore degli oppositori sarebbero rimaste come semi che comunque svilupparono iniziative e ruoli dell’Italia, a dimostrazione della ricchezza di temi e di valori che alimentavano l’ispirazione del “partito cristiano”. In conclusione, la riprovevole invasione di Putin, le inadeguatezze dell’Occidente, l’inconsapevolezza della stessa Europa, oltre a presentare un orrendo bilancio di devastazioni umane e materiali, sono destinate a produrre un altro drammatico effetto: il seppellimento della speranza che, con la profezia di Papa Wojtyla, aveva accompagnato il crollo del comunismo in Russia, cioè di costruire l’Europa “dall’Atlantico agli Urali”, quella “casa comune europea” che sola avrebbe finalmente consegnato al nostro travagliato continente quel destino di pace che in questi giorni viene ancora una volta drammaticamente negato. Questa tragedia non detta è forse l’ombra più cupa che chiude il futuro e la speranza di un domani diverso per tutti gli europei.

Pietro Giubilo




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