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28/02/2022
Lo tsunami finanziario che il Signor Putin non ha messo in conto
L’instabilità finanziaria generata dai mercati russi sarà difficile da fronteggiare per gli investitori di tutto il mondo

Osservando la cartella clinica del sistema economico russo sono ben evidenti (senza approfonditi esami diagnostici) le sue patologie. Alcune delle quali sono le stesse di quello italiano. Una bassa crescita del Pil e gravi problemi strutturali: invecchiamento della popolazione, produttività stagnante (gli stessi del bel paese), ed una eccessiva dipendenza dalle fonti fossili come gas e petrolio che generano circa il 20% del Pil, il 40% delle entrate fiscali ed il 50% delle esportazioni (in questo caso però la nostra dipendenza è dal lato del passivo della bilancia dei pagamenti e non dell’attivo). Unitamente ad scarsa integrazione nelle catene del valore globali. Ma l’autocrate Vladimir Putin, preoccupato per queste debolezze, insieme coi suoi collaboratori, ha trascorso gli ultimi 8 anni a prepararsi, a costituire dei ‘buffer stock’ (scorte cuscinetto) ed a rendere il sistema economico russo meno vulnerabile alle eventuali reazioni occidentali. A partire dalla crisi del 2014, infatti, la Russia ha diminuito la sua esposizione col settore estero e de-dollarizzato la sua economia, ha ridotto il debito pubblico (sotto il 20% sul Pil) adottando l’austerità (creazione di avanzi di bilancio al netto della spesa degli interessi), ha attuato una draconiana riforma delle pensioni, ed ha portato avanti una politica “protezionista” (autarchica) di crescita attraverso la ‘sostituzione delle importazioni’. Producendo però con riduzione di efficenza all’interno, beni e servizi che prima importava. E, grazie all’aumento del prezzo del petrolio, e del gas negli ultimi mesi ha accumulato riserve estere pari ad oggi a 640 miliardi di dollari (oltre il 40% del Pil). Cercando intese con nuovi partner commerciali (in primis la Cina).

In questo modo, quando i prezzi dell’energia sono saliti, ha sferrato un attacco militare su tre fronti all’Ucraina con l’intento di concludere in buona parte la sua opera di ri-conquista di territori della ‘Grande Russia’: iniziata dopo la rivoluzione di Euromaidan del 2014 con l’annessione della Crimea. Ma come si dice ha fatto i conti senza l’oste. Lo scoppio del più grande conflitto militare in Europa dalla seconda guerra mondiale ha colto di sorpresa molti investitori. Il mercato azionario di Mosca, infatti, è stato colpito da uno dei più grandi crolli della storia finanziaria moderna. Giovedì scorso l'indice RTS basato sul dollaro è sceso del 38% (con un parziale recupero venerdì) mentre le obbligazioni russe sono crollate e il rublo è precipitato a un minimo storico nel fixing rispetto al dollaro. La repentina diminuzione dei corsi azionari ha evidenziato come anche molti investitori russi, che padroneggiano l'attività sui mercati interni, si siano trovati impreparati riguardo l’attacco di Putin all’Ucraina. Ma nemmeno l’autocrate aveva messo nel conto questo ottovolante finanziario. Sembra che la sua valutazione sia stata solo quella che i clienti stranieri avrebbero continuato ad acquistare gas, grano e prodotti minerari russi: sottovalutando l’acquisto di azioni e obbligazioni. Ma l’instabilità finanziaria generata dai mercati russi sarà difficile da fronteggiare per gli investitori di tutto il mondo, data la complessa interazione tra l'impatto sui mercati azionari, le sanzioni finanziarie che saranno imposte alla Russia, l'aumento vertiginoso dei prezzi delle materie prime, il freno alla crescita economica globale dovuto all'accresciuta incertezza geopolitica ed ale azioni che le banche centrali di tutto il mondo potrebbero intraprendere. La reazione dei mercati azionari globali riflette, infatti, la genuina incertezza che gli investitori devono ora fronteggiare, poiché cercano di valutare come la guerra in Ucraina potrebbe influenzare le decisioni delle banche centrali nel rimodulare lo stimolo attivato per contrastare gli effetti economici avversi provocati della pandemia.

Già i tassi d’inflazione costantemente elevati avevano spinto i trader a mettere in conto l’aumento dei tassi di interesse quest'anno in Europa e negli Stati Uniti. Insomma chi più ne ha ne metta. Dicevamo sopra delle sanzioni finanziarie che potrebbero essere imposte. Molti hanno pensato ad una loro inutilità visto le ingenti riserve che detiene la Russia. Ma le cose stanno diversamente. I dollari, gli euro e le sterline ed altre valute, infatti, pur essendo di proprietà della banca centrale russa quest’ultima non li controlla. Quasi tutte quelle centinaia di miliardi di riserve russe sono controllate da banche centrali straniere ed esistono solo come annotazioni nei loro registri: in particolare della BCE e della Fed. La Russia importa quasi tutto ciò di cui i suoi abitanti hanno bisogno e per questo ha necessità di utilizzare valute diverse dal rublo. E nel mondo digitalizzato moderno, le riserve non possono essere utilizzate senza l'accordo della banca centrale che lo detiene. C'è un'eccezione a tutto ciò: i circa 132 miliardi di dollari di riserve russe che assumono la forma di oro fisico che sono nella diretta disponibilità della Banca Centrale russa. Quest’ultima potrebbe pertanto impegnare quell'oro o venderlo. Ma a chi? La maggior parte dei potenziali clienti potrebbe essere minacciata di sanzioni e coloro che potrebbero sfidarle, invece, non possono permettersi di comprarne molto (ad esempio il Venezuela). Ma al mondo c’è solo un cliente nella possibilità di farlo: stiamo parlando della Cina. Quest’ultima però accetterebbe di farlo? E anche se fosse d'accordo, non richiederebbe uno sconto? Come avverrebbe la transazione? La Cina si accontenterebbe semplicemente di assumere la proprietà legale dell'oro e di lasciarlo all'interno dei caveau russi? Poco probabile.

Alla stregua di uno spostamento da Mosca a Pechino. Visto che risulterebbe di non facile attuazione il trasporto di 2.290 tonnellate di lingotti d’oro. Tornando a bomba. Il sistema economico e sociale russo dipende dalle banche centrali occidentali. Ma quest’ultime non possono però tirare troppo la corda e qui ci imbattiamo nei limiti delle sanzioni che una banca centrale può imporre. Non bisogna esagerare. L'Occidente dovrebbe infliggere sanzioni che inducano la Russia a modificare il suo comportamento aggressivo, ma non a schiacciare il suo sistema economico. L'arma della banca centrale, infatti, è così potente che potrebbe spingere Putin ad essere più feroce e determinato in un'ultima disperata scommessa. Pertanto la successiva domanda è: c'è un modo per usare l'arma delle sanzioni della banca centrale in modo più incrementale? Forse c'è. Le banche occidentali non hanno bisogno di congelare del tutto i conti della banca centrale russa. Potrebbero concederle un assegno di mantenimento di un tot di miliardi al mese. Ciò metterebbe la Russia sotto tutela finanziaria consentendole nel contempo di andare avanti. Le decisioni che saranno prese dall’Unione Europea (con la comunicazione dell’elenco delle banche interessate dal provvedimento) oggi pare che vadano in questa direzione con la Fed che per ora rimane alla finestra. L'Occidente non ha potuto impedire a Putin di spendere valuta estera per la sua guerra o di favorire ‘i compari’ nella distribuzione di valuta estera. Ma la restrizione controllata renderebbe tangibile il terribile costo delle decisioni guerrafondaie di Putin ad ogni settore della società russa. Non è un colpo di grazia, ma potrebbe fare abbastanza male e, naturalmente, consentire di procrastinare la resa dei conti in base al comportamento dell’autocrate Putin. Naturalmente potrebbe esserci una reazione di Putin sul fronte del gas con una riduzione delle forniture. Quello che accadrà realmente ed in che misura però lo scopriremo solo vivendo.

Marco Boleo




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