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02/07/2021
Grillo e Conte: una contesa tra due che mostra tre perdenti
per fortuna le sorti dell’Italia non dipendono dagli eventi di questa poco esaltante diatriba e dai suoi esiti

Il “ritorno al reale” con il quale Mario Draghi sta agendo nel suo ruolo istituzionale comincia a produrre i suoi effetti. La politica italiana ritrova il quadro internazionale che Alcide De Gasperi scelse, non senza contrasti anche all’interno del suo stesso partito, e si avvia sulla ragionevolezza delle riforme necessarie per ricevere i fondi del Recovery Plan ed oltre. Soprattutto vanno emergendo novità destinate a incidere sul futuro politico, cambiandone i canoni compresi gli esiti delle elezioni politiche del 2018.

Oltre a indurre una parte importante del “sovranismo” ad accettare e partecipare alla strategia internazionale, politica europea compresa, l’avvento di Draghi ha accelerato la crisi dell’ideologia della protesta che aveva fatto nascere il Movimento 5 Stelle. Torna ad apprezzarsi la governabilità, la necessità cioè che il ruolo della politica ed il senso della sua rappresentanza debbano basarsi sulla capacità di affrontare e risolvere i problemi e di confermare il Paese nel giusto consesso europeo, al fine di determinarne e utilizzarne la necessaria solidarietà.

La crisi del Movimento 5 Stelle è l’effetto di questo cambiamento dimensionale della politica italiana e lo scontro tra Grillo e Conte ne esprime l’aspetto più evidente. 

E’ difficile per un Movimento privo di cultura politica che, in una condizione di fragilità del Paese, si era aggiudicato un larghissimo consenso attraverso la capacità mediatica del suo fondatore, affrontare e risolvere con il solo impegno comunicativo o con adeguamenti statutari, una crisi che nasce su di un livello più profondo. La perdita di consenso, registrata dalle elezioni locali e dalle analisi sulle intenzioni di voto, deriva dalla perdita della prospettiva politica, rispetto alla quale la dislocazione del potere interno nulla può fare.

La ragione per la quale il “garante” rivendica il suo primato e ritiene di poter traghettare il Movimento oltre la crisi non è dettata solo dal comprensibile sentimento di chi lo ha costruito, ma si basa sulla sua percezione del futuro e sulla capacità di affrontarlo. Grillo ha una lettura della globalizzazione del tutto simile a quella di XI Jinping e la sua visita all’ambasciata cinese, mentre si svolgeva il G8 in Cornovaglia, aveva questo significato. A ben vedere l’inizio della rottura con Conte si è prodotta con il rifiuto dell’ex premier di parteciparvi.

Ma il quadrante internazionale è mutato rispetto a quando scelse il simbolo delle “cinque stelle”, uguali nel numero a quelle dello Stato cinese. Grillo resta un “visionario” della politica, Conte ritiene sufficiente la gestione. Tuttavia anche la gestione richiede categorie politiche. La politica per un partito duttile nelle alleanze fino all’opportunismo e, comunque, con un indirizzo generale di centrosinistra, richiederebbe ben altro per essere realizzata che non una sperimentata vocazione all’occupazione del potere, comunque e dovunque. Questo è, e resta, lo stigma di Giuseppe Conte. La mediazione o è un’arte della politica o è una vocazione al solo compromesso. L’ex premier ha mostrato di non possedere entrambe, evocando la scissione.

D'altronde è risibile la superficialissima intenzione di chi etichetta come “neodoroteismo” la prospettiva politica di qualche protagonista dei 5 Stelle. Questi si definiscono e si limitano alla sola evidente capacità di adattamento alle circostanze che il quadro politico offre. La qualità del doroteismo nella DC era la intelligenza di mediare per affrontare e guidare le circostanze della politica. In questo senso Moro ne aveva rappresentato l’anima vivente che riusciva, nei momenti decisivi, a far stare insieme le diverse correnti del partito.

Conte invece è l’uomo che si adatta a tutto. Dal governo con Salvini a quello con Zingaretti. Un tempo quando il partito di maggioranza relativa mutava indirizzo politico, lo realizzava con un diverso segretario e un cambio di premier. E’ giunto con disinvoltura ad affermare di aver favorito la nascita del governo Draghi, quando ha invece tentato di resistere rivolgendosi, nel gennaio scorso, verso quella che un tempo, con un termine dispregiativo, era individuata come la parte debole del Parlamento, ispirando la costituzione di un gruppo che ha consentito al tartufesco Bruno Tabacci di ottenere un sottosegretariato.  

Lo scontro in atto sembra incomponibile, ma potrebbero riservarsi sorprese di ogni tipo. Quando la bussola che orienta le scelte dei parlamentari 5 Stelle sono il completamento della legislatura e la candidatura oltre i due mandati, schierarsi con chi offre di più ne è il risultato. Queste condizioni potrebbero determinare un “25 luglio” statutario.

L’asprezza dello scontro che non vede, tra i due, ancora un vincitore - e non ne avrà comunque - tuttavia, ha già un perdente: il Pd, ovvero la linea di coloro che avevano connotato come strategica l’alleanza con i 5 Stelle. Nella sostanza tutto il Pd aveva visto, con azzardo, in Giuseppe Conte il “centro” e, di conseguenza, tutto il Pd perde perché l’ex premier ne esce ridimensionato rispetto alle aspettative trionfali e sarà per lui assai difficile offrire alla sinistra un sponda politica apprezzabile. Renzi e Calenda ne potrebbero avvantaggiarsi.

E, forse si risolverà in un bene anche perché la linea politica di Enrico Letta, poggiata sull’illusione ottica del centrista ex premier, è stata, fino adesso, del tutto fallimentare. Anche per lui si imporrebbe il dovere del “ritorno al reale”.

Per fortuna le sorti dell’Italia non dipendono dagli eventi di questa poco esaltante diatriba e dai suoi esiti. La sua governabilità è messa al riparo. Il “ritorno al reale” è irreversibile. Mario Draghi procede con il governo sulla strada giusta verso quegli obbiettivi per i quali Mattarella, dimostrando la decisività del ruolo presidenziale, lo aveva indicato alle forze politiche. A questo proposito un attento opinionista come Massimo Franco titola, con preoccupazione, la sua nota: “un Parlamento balcanizzato dovrà votare per il Quirinale”. Mentre si entra nel semestre bianco cresce l’esigenza di poter contare su una autorevolezza settennale nel Colle più alto.

Pietro Giubilo




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