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20/01/2021
Il centenario della nascita del Partito Comunista
la storia ha dimostrato come questa strategia rivoluzionaria abbia portato pochi frutti

Qualcuno era comunista perché vedeva la Russia come una promessa, la Cina come una poesia ed il comunismo come il paradiso terrestre.

Così scriveva, nel 1992, Giorgio Gaber in un pezzo divenuto un classico della musica, ma anche del teatro, italiano.
Si proseguiva poi sostenendo, tra il serio ed il faceto, che qualcuno era comunista perché era talmente affascinato dagli operai che voleva, addirittura, essere uno di loro mentre altri lo erano perché non ne potevano più di fare l'operaio e volevano l'aumento di stipendio.

E poi, insomma, alla fine qualcuno era comunista perché la rivoluzione? Oggi, no, domani forse, ma dopodomani sicuramente.

Una domanda quella sul perché qualcuno era (è?) comunista oggi particolarmente attuale visto che domani, 21 gennaio, si celebra il centenario della nascita del Partito Comunista nel nostro Paese.

Nel 1921, infatti, nell’ultimo giorno del XVII congresso del Partito Socialista Italiano che si svolgeva al teatro Carlo Goldoni di Livorno, un gruppo di delegati guidati da Amadeo Bordiga, Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti insieme alla stragrande maggioranza dei giovani della Federazione Giovanile Socialista, abbandonò la sala del teatro Goldoni e, presso il non distante teatro San Marco, proclamò la nascita del Partito Comunista d’Italia.

La scelta partiva da alcune considerazioni di ordine socio-economico generali.

Il “regime” sociale capitalistico del tempo sviluppava, per gli scissionisti, un sempre crescente contrasto fra le forze produttive ed i rapporti di produzione, dando origine all’antitesi di interessi ed alla lotta di classe tra il proletariato e la borghesia dominante.

I rapporti di produzione erano, sempre secondo il gruppo “gramsciano” protetti dal potere dello Stato borghese, che, fondato sul sistema rappresentativo della democrazia, costituiva, fondamentalmente, l’organo per la difesa degli interessi della classe capitalistica.

In questo quadro, se ne deduceva che il proletariato non potesse modificare il sistema dei rapporti capitalistici di produzione, da cui derivava il suo sfruttamento, senza l’abbattimento violento del potere borghese.

La storia ha, evidentemente, dimostrato come questa strategia rivoluzionaria abbia portato pochi frutti a quei lavoratori, e proletari, di tutto il mondo che si proponeva di difendere e anche dove, almeno nominalmente, esistono ancora regimi di stampo comunista, come nel caso della Cina, in realtà spesso siamo di fronte a Paesi, per paradosso, turbo-capitalistici.

In tempi dove, sempre citando Gaber, è sempre più difficile capire cosa è la destra e la sinistra, tuttavia, sarebbe curioso sapere cosa sosterebbero “gramscianamente”, oggi, i promotori, a partire dal 1921, della via italiana al comunismo delle scelte economiche messe in campo, in questi giorni, dal Governo Conte nei vari provvedimenti emergenziali e nel delineare la prospettiva del recovery fund che dovrebbe, almeno negli auspici dell’Europa, immaginare l’Italia del futuro.

Sarebbero, ad esempio, soddisfatti o meno dei vari sussidi o bonus pro tempore o chiederebbero con forza riforme strutturali? Come si porrebbero di fronte al tema dello smart working e alle nuove disuguaglianze dovute alla digitalizzazione ed alla globalizzazione del lavoro? In cosa si declinerebbe una via comunista al recovery plan?

Giancamillo Palmerini




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