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04/12/2020
Gli Accordi di Dayton: dopo 25 anni il vero problema è la riconciliazione
la fine della guerra ha avuto anche il merito di orientare sempre più il Paese verso una prospettiva europea

Gli Accordi che furono firmati a Dayton venticinque anni fa tra serbo-bosniaci, musulmani e croati, sotto il patrocinio del presidente statunitense Clinton, ebbero il solo merito di porre fine in Bosnia alla guerra civile, che devastò il Paese tra il 1992 e il 1995 (una delle guerre più atroci in cui si dissolse la Jugoslavia). Di “civile”, purtroppo, quella guerra non ebbe nulla, anche perché quel conflitto fu segnato da enormi atrocità, da oltre 100mila morti (in grande maggioranza civili) e da milioni di persone costrette a lasciare le proprie case! Un altro effetto degli accordi fu quello di stabilire i confini delle diverse entità di cui si componeva la Bosnia-Erzegovina, e i territori definiti da questi confini diventarono le due Repubbliche riferite alle due entità in cui fu divisa la Bosnia: una serbo-bosniaca che diede vita alla Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, di religione ortodossa, e l’altra la Federazione di Bosnia ed Erzegovina abitata da bosgnacchi e croato-bosniaci di religione musulmana. Il tentativo di dare con gli Accordi una veste unitaria a una realtà che ha come caratteristica secolare quella della frammentazione (religiosa, culturale, sociale, politica) fu accompagnata dalla strutturazione politico-amministrativa di segno contrario: le due repubbliche hanno un proprio ordinamento (che disegna diverse modalità decisionali), alle due entità si aggiunge un distretto con autonomia amministrativa propria (anche in materia economica e fiscale), i sistemi di polizia, doganali e postali sono differenti, la Federazione di Bosnia ed Erzegovina è composta da 10 cantoni autonomi con i propri governi e la Repubblica serba ha una divisione amministrativa in municipalità che hanno una propria autonomia (seppure più contenuta). 

La divisione come dato strutturale fu, in effetti, il prezzo pagato alla pacificazione bellica. Inoltre, questo disegno politico-istituzionale insieme con la guerra fermò temporaneamente anche i progetti di egemonia etnica (che si celavano dietro forme di sovranismo, come quello di costruire la grande Serbia), ma non ha potuto cancellarli del tutto, tant’è che oggi ritornano nuovamente le spinte secessionistiche. Tuttavia, il sistema ha retto in qualche modo perché poggiava sulla forza di una tutela internazionale, che oggi però si mostra insufficiente e debole in quanto non riesce ad avere forza coinvolgente, non si integra con le istituzioni locali, e, in fondo, non fa che rimarcare la debolezza della politica (locale e internazionale). Nei dieci anni successivi agli accordi la cultura nazionalista ha prevalso come elemento di divisione, disegnando una geografia politica di contrapposizione secondo direttrici etnico-religiose. Non casualmente i partiti politici invece di favorire politiche di inclusione, comprendendosi come luoghi del dialogo e dell’incontro, si sono progressivamente rafforzati come raggruppamenti etnico-nazionalistici. Ciò è ancora dimostrato dagli esiti delle ultime consultazioni elettorali del 2018 e dalla persistenza di una presidenza statale tripartita in rappresentanza della comunità serba, di quella bosgnacca e di quella croata, che teoricamente avrebbe dovuto garantire la rappresentazione equa degli interessi delle differenti comunità attraverso processi decisionali condivisi. Ne è derivato, al contrario, un sostanziale immobilismo che, se da un lato sollecita progetti secessionistici, di fatto impedisce al Paese di modernizzarsi e di attrarre investitori stranieri. Inoltre, il malfunzionamento della macchina statale centrale coinvolge anche le due entità repubblicane, sostanzialmente richiuse in se stesse con ricadute negative in tema di economia e di occupazione. 

Tuttavia, la fine della guerra ha avuto anche il merito di orientare sempre più il Paese verso una prospettiva europea e, pur nella difficoltà di modificare l’assetto costituzionale scaturito dagli Accordi di Dayton, la Bosnia ha chiesto di entrare nel processo di allargamento dell’Unione europea. Nel Paese, quindi, di fatto la situazione si presenta molto ondivaga: ad esempio da un lato si registra una tensione verso un futuro politico migliore (ne è un esempio la sottoscrizione con l’Unione europea del Patto di Stabilizzazione e associazione”, sottoscritto nel 2008 ed entrato in vigore dopo un lungo travaglio nel giugno del 2015) e dall’altro risorge il conflitto tra il livello statale e quello repubblicano delle due entità, registrandosi il ripetere di minacce di secessione dopo (specie quando gli esiti elettorali rafforzano le posizioni dei partiti nazionalisti); da un lato si progettano riforme necessarie per modernizzare il Paese nella direzione del Patto di associazione (come ad esempio la riforma della polizia) l’allineamento della costituzione bosniaca alla Convenzione Europea sui Diritti Umani. Non c’è dubbio che l’Europa rappresenta per la Bosnia il luogo in cui le divisioni possono assumere una caratterizzazione positiva, tanto da poterle considerare come elementi di una diversità che può migliorare la condizione del Paese verso il conseguimento di obiettivi comuni.

Occorre considerare che la differente composizione etnica diventa elemento di divisione nell’ottica di una politica di basso profilo, condizionata da negative eredità storiche, ma nella prospettiva delle relazioni tra i popoli non è considerato un problema. Questa  stessa politica sovente accentua le dinamiche divisive attribuendo alla composizione etnica un valore differente da quello storico di prevalente pacifica coabitazione: secondo i dati del primo censimento postbellico del 2013 (riferito al 2006) la popolazione è composta da Bosniaci (48%), Serbi (37%) e Croati (14,5%) e da 17 gruppi etnici minoritari (albanesi, cechi, ebrei, italiani, macedoni, montenegrini, polacchi, rom, romeni, russi, russini, slovacchi, sloveni, tedeschi, turchi, ucraini e ungheresi), ufficialmente riconosciuti da una legge del 2003. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che la composizione etnica è mutata dall’inizio del conflitto del 1992 perché molte famiglie e persone sono fuggite dai territori sia perché si sono rifugiate all’estero sia perché hanno preferito stabilirsi nelle parti in cui era la maggioranza etnica alla quale appartenevano. Anche secondo l’appartenenza religiosa il Paese si presenta diviso e, sebbene non sia possibile avere certezza sui  dati, si può definire il seguente quadro: la religione maggioritaria è quella musulmana, intorno al 50%, segue la religione serba ortodossa, intorno al 30%, e poi quella cattolica, intorno al 15%; esiste anche una piccola e antica comunità ebraica, che era molto più consistente prima della seconda guerra mondiale, quando subì morti e deportazioni (oltre 10.000 persone), e comunque ridottasi ulteriormente dopo la guerra degli anni novanta del secolo scorso. 

Come dicono i numeri e come racconta la storia, l’appartenenza religiosa trascende lo stretto significato spirituale, poiché si riveste dei significati propri della nazionalità. Ne consegue che, secondo una lettura superficiale ma molto vicina alla sensibilità delle persone, i bosniaci sono visti come musulmani, i serbi come ortodossi, i croati come cattolici. Inoltre, soprattutto in conseguenza della evoluzione della guerra civile maggior rilevanza è stata attribuita alla combinazione tra religione e nazione: sicché, è accaduto che l’identificazione tra religione e nazione e la circostanza (non irrilevante) che la guerra è stata combattuta non fra eserciti regolari ma tra gruppi nazionalistici armati ha favorito la scelta di rendere i territori conquistati etnicamente omogenei. Ciò ha comportato la terribile conseguenza che la violenza è stata diretta (in modo feroce come non mai) contro la popolazione civile, scatenando un odio profondo verso coloro che appartenevano all’altro gruppo nazional-religioso, smarrendo un antico rispetto per la realtà multiculturale del Paese e dimenticando il dialogo tra i differenti popoli, che nei secoli, comunque, ne ha caratterizzato le relazioni. L’odio, quindi, è stato programmato e volutamente scatenato dai cosiddetti leaders militari attraverso atrocità bestiali in modo che fosse difficile cancellarne la memoria all’interno delle popolazioni, delle etnie e, persino, delle religioni. I tribunali penali internazionali in qualche modo sono intervenuti con la condanna dei responsabili, ma non hanno il potere di far resuscitare i morti, molti dei quali (a qualunque etnia o religione appartengano) sono sepolti ancora in fosse comuni e, ancora dopo venti anni dagli eventi, continua l’opera pietosa di dare loro una identità man mano che le fosse sono scoperte.

Si comprende, dunque, come il problema della Bosnia oggi è come dare spazio alla riconciliazione. Le religioni non sempre sono state in grado di intervenire sia durante sia alla fine del conflitto, di cui sono state vittime, attingendo al loro patrimonio spirituale più sano e profondo. In una recente intervista padre Ivan Sarcevic, francescano docente di teologia a Sarajevo, ha dichiarato con molta onestà e franchezza: “Non abbiamo neanche fatto, come diceva Papa Giovanni Paolo II, la purificazione della memoria, e non abbiamo riconosciuto le nostre colpe, nel senso della responsabilità istituzionale, politica. La nostra colpa politica o morale è stata di aver spesso incoraggiato i nostri soldati a colpire anche gli innocenti. Questo non è bene, e non abbiamo purificato la nostra coscienza con un pentimento senza condizioni”. Fratel Ivan si riferisce alla iniziativa di papa san Giovanni Paolo II, che  propose nella quaresima del 2000 la giornata del perdono come segno di misericordia per l’anno giubilare, sostenendo in forma di preghiera per ottenere purificazione ed esprimere il pentimento che “La Chiesa non può varcare la soglia del nuovo millennio senza spingere i suoi figli a purificarsi, nel pentimento, da errori, infedeltà, incoerenze e ritardi” (così nella lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente, TMA, 33). Papa Woitila aveva piena e sofferta consapevolezza del dramma di quelle terre, che potè visitare solo nel 1997 a guerra finita. Nella sua visita a Sarajevo nell’aprile del 1997, il papa fece 7 discorsi in 24 ore a testimonianza della elevata partecipazione e del pressante invito a sostenere ogni azione di pace e di dialogo tra le persone. Basti ricordare il patos della preghiera che elevò: “Io, Vescovo di Roma, il primo Papa slavo, mi inginocchio davanti a Te per gridare: ‘Dalla peste, dalla fame e dalla guerra - liberaci!’. Padre nostro! Padre degli uomini: Padre dei popoli. Padre di tutti i popoli che abitano nel mondo. Padre dei popoli d’Europa. Dei popoli dei Balcani…”. Ancor più pressante l’invito al perdono nel passaggio di uno dei discorsi: “Mai più la guerra, mai più l’odio e l’intolleranza! Questo ci insegna il secolo, questo il millennio che stanno ormai per concludersi. E’ con questo messaggio che mi accingo ad iniziare la mia Visita pastorale. Alla logica disumana della violenza è necessario sostituire la logica costruttiva della pace. L’istinto della vendetta deve cedere il passo alla forza liberatrice del perdono”. Anche papa Francesco nel suo viaggio del 2015 ha insistito molto sulla necessità che sia “accresciuta ulteriormente” la pace e la concordia tra croati, serbi e bosgnacchi e che si rafforzino “le relazioni cordiali e fraterne tra musulmani, ebrei e cristiani“, riconoscendo i “valori fondamentali della comune umanità, valori in nome dei quali si può e si deve collaborare, costruire e dialogare, perdonare e crescere, permettendo all’insieme delle diverse voci di formare un nobile e armonico canto, piuttosto che urla fanatiche di odio”. Il punto difficile, quindi, consiste proprio nell’attivare azioni di perdono e di riconciliazione, che sono la base necessaria per un lavoro congiunto e uno sforzo condiviso per lo sviluppo di tutto il Paese. Bisogna riprendere con maggior convinzione il cammino indicato da san Giovanni Paolo II in modo chiaro e coraggioso: come egli ebbe a dire a Banja Luka, capoluogo della Republika Srpska, invocando il perdono reciproco, perché “soltanto in un clima di vera riconciliazione, la memoria di tante vittime innocenti e il loro sacrificio non saranno vani, ci incoraggeranno a costruire rapporti nuovi di fraternità e di comprensione” (omelia per la messa di beatificazione del laico Ivan Merz davanti al convento di Petricevac). Non si tratta di dimenticare la propria storia e identità, ma, come disse papa Francesco durante la visita, si tratta di non “dimenticare la vostra storia. Non per vendicarvi, ma per fare pace". Si tratta di un cambiamento che può essere favorito sia dalle stesse religioni sia dal processo di ingresso nell’Unione europea. Le religioni possono giocare un ruolo importante per favorire il processo di conversione, avendo già iniziato importanti forme di dialogo e collaborazione. Ad esempio, le religioni presenti in Bosnia (specialmente quelle ortodossa, islamica e cattolica) da qualche anno collaborano per contrastare le varie forme di indigenza e per soccorrere le popolazioni più povere. La povertà costituisce una pesante eredità della guerra e, infatti, si calcola che al di sotto della soglia di povertà si trovi circa il 19% della popolazione, che subisce inoltre anche una pesante pressione fiscale. La povertà è stata causa ed effetto della emigrazione che si sviluppò con grande intensità subito dopo la fine della guerra.  L’emigrazione con i suoi effetti negativi fu, infatti, il primo grande problema che vide accomunate in uno sforzo unitario le organizzazioni umanitarie religiose (quelle cattoliche, ortodosse, musulmane ed ebraiche per il tramite di Caritas, Merhamet, Dobrotvor, La Benevolencija). L’impoverimento delle risorse umane specialmente giovanili costituisce, ancor oggi, un problema affrontato da papa Francesco durante la sua visita nei discorsi destinati alle autorità e proprio ai giovani.

La ricostruzione in Bosnia è non solo un fatto materiale ed economico-sociale, ma in particolare è un processo politico e morale. Grazie anche al sostegno e alle sollecitazioni dei leaders religiosi mondiali (come ad esempio i pontefici romani e qualche patriarca ortodosso) e delle organizzazioni religiose straniere (specie quelle tedesche e italiane), le comunità cattoliche, ortodosse e musulmane hanno iniziato un esame di coscienza e un percorso di autocritica programmando azioni di riconciliazione. Mostar, dove si terranno il 20 dicembre 2020 le elezioni amministrative, è un esempio: il luogo simbolo delle distruzioni e delle vendette oggi trova le tre grandi religioni impegnate nella costruzione del dialogo e della pace. Ne sono guide i sacerdoti cattolici (ad esempio don Ante Komadina, direttore della Caritas diocesana di Mostar) ortodossi (come padre Radivoje Krulj, parroco degli ortodossi a Mostar), alcuni iman (come Salem Dedovic, l’imam principale di Mostar) e i frati francescani. Così, accade che in occasione delle più importanti ricorrenze religiose delle tre confessioni (ad esempio il Natale ortodosso, la festa di San Francesco, il Ramadan) le tre comunità si riuniscono insieme per celebrare e festeggiare; sulla base di questa partecipazione comune alla preghiera si va costruendo anche l’impegno per la ricostruzione. Questo sforzo comune non sempre è sostenuto da corrispondenti azioni della politica, che sembra più attenta a sostenere la divisione del Paese per motivi di gestione del potere. Invece, proprio nel momento in cui l’Unione Europea rende più concreto e vicino il cammino verso l’integrazione anche la politica dovrebbe assumere una diversa responsabilità più orientata alla riconciliazione e alla ricostruzione dei contesti culturali. Ricostruzione e riconciliazione esigono un rinnovamento e un impegno culturale da realizzarsi specialmente nelle scuole e nelle università. Queste istituzioni sembrano più attive nella formazione di cittadini nuovi e più consapevoli del ruolo che li attende, anche aprendosi a varie forme di collaborazione. Un esempio è dato dall’Università di Banja Luka che, attraverso una importante collaborazione con l’Università di Bari Aldo Moro, ha avviato da tempo corsi di lingua e cultura italiana, che sono molto seguiti grazie all’impego di un ricercatore italiano (il prof. Danilo Capasso) che ora è pienamente inserito nella cultura e nella vita accademica del Paese. Ricostruzione e riconciliazione richiedono anche la capacità da parte delle istituzioni europee di saper svolgere un protagonismo diverso e una cooperazione che rispetti la storia dei popoli balcanici, che impari a conoscere le potenzialità (anche quelle inespresse), che realizzi un partenariato paritario per la costruzione di un comune avvenire di pace e progresso. L’adeguamento della Bosnia alle prescrizioni dell’Unione Europea per il percorso di integrazione può essere l’occasione per rafforzare il percorso di riconciliazione. In effetti, le più importanti prescrizioni poste dall’UE riguardano l’insediamento dello stato di diritto, le garanzie democratiche e la stabilità delle istituzioni, la tutela dei diritti umani fondamentali, il rispetto e la protezione delle minoranze. Come è facile osservare si tratta di condizioni che sono ampiamente coerenti con un processo di riconciliazione, poiché è ben evidente che non si può riconoscere il diritto alla libertà e ai diritti umani dell’altro se non lo si rispetta come persona. Il mero accoglimento formale dei diritti e dei doveri contenuti nelle prescrizioni alla lunga precipita ancor più il degrado della vita sociale. Per questo, non c’è dubbio che operare per il pieno recepimento delle prescrizioni comporta anche ristabilire buoni rapporti affettivi, sociali, umani e sentimenti di accordo. In questa prospettiva, l’azione delle religioni nel recupero di un processo di riconciliazione assume anche un elevato valore socio-politico nella direzione delle prescrizioni dell’UE e della prospettiva europea per la Bosnia.

La tutela della libertà religiosa costituisce un altro elemento importante sulla strada della riconciliazione e della ricostruzione delle relazioni tra le persone, le popolazioni, le città. Nel 2004 lo stato di Bosnia approvò una legge sulla libertà religiosa (la n. 7), che tutela il diritto di avere una propria religione, definisce la posizione giuridica delle chiese e delle comunità religiose, vieta ogni forma di discriminazione per motivi religiosi, stabilisce i principi per definire le relazioni tra lo Stato e le comunità religiose. Questa stessa legge crea presso il Ministero della Giustizia un registro nel quale le differenti comunità religiose devono obbligatoriamente iscriversi e attribuisce al Ministero dei Diritti umani e dei rifugiati il compito di monitorare le violazioni contro la libertà religiosa. In virtù della legge sulla libertà religiosa, lo Stato formalmente si attribuisce il potere di riconoscere le comunità religiose (e, infatti, sono riconosciute quattro comunità religiose e chiese tradizionali, cioè la comunità islamica, la Chiesa ortodossa serba, la Chiesa cattolica romana e la comunità ebraica) e stabilisce come criterio per l’accesso al riconoscimento giuridico di nuove chiese o comunità religiose la richiesta scritta al Ministero della Giustizia da parte di qualsivoglia gruppo, purché composto numericamente da 300 cittadini adulti. La legge prevede una procedura che deve essere completata in modo che la decisione sia adottata entro 30 giorni dalla domanda, stabilendo che a seguito del diniego si può presentare ricorso al Consiglio dei Ministri. La legge presenta molti elementi di interesse e si può sostenere che, in qualche modo, offre una risposta che cerca di contemperare i diritti individuali e quelli delle comunità religiose, combinati con la tradizione del Paese. Infatti, la legge disciplina l’insegnamento della religione come diritto dei cittadini e non delle comunità religiose, alle quali affida la responsabilità dell’insegnamento di religione in tutte le scuole dell’infanzia pubbliche e private, nelle scuole primarie e nelle università, organizzando classi di religione per tutti gli studenti delle scuole superiori. A seguito della legge del 2004, sono stati siglati accordi con la Santa Sede (il 19 aprile 2006), anche se non sono ancora entrati in vigore perché non ratificati dal Parlamento.

Il tema della urgenza di tutelare la libertà religiosa nel Paese fu riproposto da papa Francesco nella sua visita del 2014 sia come responsabilità dei politici sia come responsabilità delle religioni, per l’importanza della loro funzione sociale. Questi temi furono ripresi con grande tempestività all’interno della Bosnia nel settembre del 2015 con un seminario di studi organizzato a Sarajevo. Anche la conferenza episcopale bosniaca, all’interno dei lavori del suo Consiglio nel marzo del 2017 sotto forma di appello ai “rappresentanti politici del popolo croato”, ha ripreso la necessità di “sostenere con tutti i mezzi democratici la tutela e la promozione dei diritti umani e delle libertà fondamentali di tutti i cittadini della Bosnia-Erzegovina e a lavorare per la parità del popolo croato con le altre due etnie”. Esiste in tutte le confessioni religiose la consapevolezza che il dialogo può favorire la ricerca di una “armonia costruttiva” di cui ha parlato papa Francesco, riconoscendo in questa direzione il ruolo “politico” (in senso lato e sociale) delle religioni nell’impegno per il dialogo interculturale. 

Gaetano Dammacco




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