Sono alcuni decenni che la scuola è oggetto di riforme, spesso inconcludenti e dannose, basate su un solo principio: la “razionalizzazione”, che tradotto in termini pratici ha avuto il significato di tagli volti al risparmio economico, circa i fondi previsti per le spese di ogni istituto, e taglio al personale con il blocco di nuove assunzioni, quindi la precarizzazione del sistema scolastico con docenti che cambiano ogni anno, non permettendo, così, la conclamata continuità didattica e creando danni all’apprendimento degli alunni.
La didattica, dunque, tante volte sbandierata come oggetto a sé stante che, solitaria, appare come la panacea per tutti i mali, ma non si comprende quali.
Il termine deriva dal greco didàsko (διδá½±σκω) e indica l’arte del sapere insegnare qualcosa a qualcuno che apprende. In tale accezione, torna centrale, quindi, colui che già in un precedente articolo ho indicato come fondamento e pilastro portante della scuola: l’insegnante; è lui che possiede, si costruisce con l’esperienza e la sperimentazione, l’arte dell’apprendere, del comunicare.
Grandi pedagogisti hanno capovolto il concetto, ponendo colui che apprende al centro dell’attenzione, con i suoi bisogni e i suoi interessi, mentre la politica scolastica degli ultimi tempi si è districata in sterili circolari ministeriali, o contestati tentativi di riforme, dimostrando la mancanza di una completa visione generale del pianeta scuola.
Tra le discussioni più gettonate, ancora oggi, vi sono due obiettivi: accorciare la durata degli anni scolastici; il collegamento della scuola col mondo del lavoro. Entrambi gli obiettivi sono raggiungibili, ma solo se si intervenisse sulla didattica e con una nuova programmazione delle attività e dei contenuti che, da decenni, continuano ad essere ripetitivi in ogni ordine e grado, lasciando docenti e discenti in mondi separati, come tante monadi tutte compiute e autosufficienti.
Il ministro Luigi Berlinguer, ad esempio, propose il taglio della terza media e i restanti due anni come continuazione della scuola elementare, pertanto, per sottrazione matematica, gli anni di studio sarebbero diventati dodici e non più tredici, sic et simpliciter. Altra ipotesi che aleggia, ancora, è il taglio tout court del quinto anno delle scuole superiori; all’interno di tali ipotesi di riforme, nessuno ha declinato una ristrutturazione dei programmi e nuovi compiti per chi deve attuare una nuova didattica; cioè, nessuno si è posta la domanda del ruolo dell’insegnante.
Gli eventi, le nuove tecnologie, i fatti di cronaca, hanno prodotto sempre più nuovi saperi la scuola è stata sobbarcata di ruoli non confacenti alla sua natura. Sono nate le “educazioni”: quella stradale per fare acquisire allo studente delle scuole medie la patente del motorino, quella sessuale per far conoscere all’allievo il proprio corpo, quella sulle droghe per fare conoscere i danni e i pericoli delle sostanze stupefacenti, quella ambientale per il rispetto della natura, quella alla legalità e, poi, a seguire si è data la possibilità di libero sfogo ai singoli istituti di inserire il sapere universale in altre educazioni, secondo la fantasia dei singoli volontari, intesi come missionari dell’educazione.
Insomma, la scuola e i docenti sono stati considerati come referenti di mansioni che appartengono ad altri: alla famiglia, alla società, allo stesso Stato. Mentre la scuola e l’insegnante sono stati snaturati nel loro ruolo reale, la famiglia, la società civile, le amministrazioni dello Stato, sono state svuotate di ogni possibilità di intervento nella vita del singolo individuo, il quale ha iniziato a perdere ogni orientamento, ogni legame con la società civile, ogni riconoscimento dei ruoli.
Insomma, è stata realizzata la desocializzazione del singolo, slegato da ogni rapporto con gli altri e da ogni regola etica, quindi da ogni comportamento morale.
E’ necessario che sorga una nuova scuola, assolutamente slegata dal passato ideologico e post ideologico, che abbia nell’insegnante l’attore preminente che apra nell’allievo nuovi orizzonti socializzanti, atti a fare nascere la coscienza di appartenere a una comunità che, utilizzando le nuove tecnologie, sia capace di condivisione e di accoglienza.
Alberto Fico