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20/07/2020
Ristatalizzare l’economia? La risposta è no!
Risulta necessaria una politica riformista che contribuisca a rendere più democratici i processi decisionali delle imprese e a sviluppare un modello di economia sostenibile

Nei momenti di crisi economica profonda, come quelli attuali, il dibattito sulla necessità dell’intromissione dello Stato nel sistema produttivo riprende vigore. Stiamo parlando della richiesta di nuove nazionalizzazioni e dell’intervento attivo dello Stato nell’attività produttiva dell’Italia.

La domanda che a questo punto bisognerebbe porsi è se questo processo di ri-statalizzazione dell’economia possa funzionare. La risposta lapidaria è: no! Questo perché il problema del nostro Paese non è la troppa presenza del mercato nell’economia (se l’economia non funziona bene) visto che attualmente circa il 70% del Pil viene generato da un settore produttivo che direttamente o indirettamente è già nelle mani dello Stato. Vediamo meglio. Nel dettaglio - con l’esclusione di FCA, di Generali e di qualche altra impresa di medie dimensioni - praticamente tutte le più grandi imprese italiane sono di proprietà o sotto il controllo diretto e indiretto dello Stato. Il controllo avviene attraverso la Cassa Depositi e Prestiti (CDP): posseduta all’83% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) e di CDP Reti, posseduta dal medesimo al 59%. Mediante quest’ultima, poi, il MEF è azionista di maggioranza di Snam, Italgas e Terna. CDP inoltre possiede il 35% di Poste Italiane, da sommarsi al 29% che è direttamente nelle mani del MEF. E non finisce qui. CDP è azionista col 9,89% anche di Telecom Italia mentre il MEF controlla direttamente: col 23,5% Enel; col 30% Leonardo, la principale azienda aerospaziale italiana; col 100% Ferrovie dello Stato e col 99,5% la Rai.

Ma come viene giustificato un siffatto statalismo imprenditoriale? Il ruolo dello Stato imprenditore sarebbe necessario per garantire il processo di innovazione che è al centro della dinamica economica. Il problema, se vogliamo, alla fine è sempre lo stesso: da una parte c'è lo Stato ideale, fatto da persone prive di difetti, lungimiranti, intelligenti, vogliose di lavorare e, soprattutto, perfettamente a conoscenza di cosa vuole il mercato e di come relazionarsi con esso. Dall'altra, invece, c'è lo Stato in carne ed ossa, costituito esattamente come il settore privato da persone imperfette, a volte non lungimiranti e scarsamente motivate e, infine, con imperfetta conoscenza del mercato e delle sue esigenze.

Ma allora una domanda sorge spontanea: come può uno Stato (spesso in condizioni di monopolio) riuscire ad avviare un processo imprenditoriale ‘necessario’ in modo efficiente ed in tempi brevi? Ipotizzando a priori che riuscirà a non farsi condizionare dalle esigenze clientelari della classe politica. La risposta è che semplicemente non ce la farà per le seguenti ragioni: 1) non conosce a priori qual è la tecnologia economicamente vincente su cui puntare; 2) non potrà determinarla procedendo per tentativi attraverso l’apprendimento per esperienza, come avviene invece nel libero mercato: muovendosi tra successi e fallimenti (la distruzione creatrice di Schumpeter); 3) non potrà eliminare i processi errati perché essendo uno Stato non può fallire e, quindi, rinunciare a percorrere la via industriale sbagliata nella quale si è incamminato. La ripresa oggi, a nostro avviso, passa piuttosto, inevitabilmente, attraverso l'efficienza della pubblica amministrazione ad ogni livello.

Per far ripartire l'economia serve una forte spinta dal basso: vanno ricostruite le reti sociali per una maggiore coesione. Si ha bisogno di un riequilibrio dei rapporti tra Stato, mercato, economia e società civile, in grado di migliorare le performance del sistema Italia. Meno Stato, più società, più parti sociali più partecipazione: questa è la ricetta essenziale. Cioè uno Stato che deve andare incontro ad una profonda razionalizzazione: partendo dal modo di gestire la cosa pubblica, passando per il modo di concepire le istituzioni, fino al numero delle istituzioni necessarie per intermediare i processi decisionali. Bisogna insomma risolvere l'equazione dell’economia sociale di mercato trovando un equilibrio tra le risposte alle seguenti tre domande: (I) quanto "sociale" è necessario? (II) quanto "mercato" è lecito? e (III) quanta regolazione da parte del governo è indispensabile per rendere il sistema di successo?

Nel dibattito in corso su come miscelare mercato, sociale e regolamentazione c'è una diversità di posizioni. Ci sono coloro che si spendono per un ruolo più o meno importante dello Stato; altri per più mercato o per più regolamentazione ed altri ancora per l'aumento della dimensione sociale da inserire in questa equazione. Sta di fatto che nel contesto attuale di globalizzazione segmentata è fondamentale identificare un equilibrio che incoraggi e richieda lo spirito imprenditoriale del mercato e che corregga i suoi fallimenti. E rifiutare, come ha scritto Mons. Mario Toso, economie sia a somma zero sia assistenzialistiche (...) che non valorizzano la libertà e la responsabilità delle persone, [e che trascurano] i valori della solidarietà e del bene comune, che a loro modo sono un prerequisito dell’efficienza economica. Si ha bisogno per questo di forze compensative sotto forma di un forte e rinnovato movimento sindacale, di una società civile diversificata e sana e di partiti politici vigili, che tengano a freno i possibili abusi e lo sfruttamento delle pratiche capitaliste, garantendo un'equa redistribuzione dei benefici del mercato con appropriati programmi sociali. Risulta necessaria, insomma, una politica riformista che contribuisca a rendere più democratici i processi decisionali delle imprese ed a sviluppare un modello di economia sostenibile in termini sociali ed ambientali. Se non ora, quando?

Marco Boleo




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