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12/06/2020
Ritardi, libro dei sogni e realtà
Capire e interpretare l’Italia, operare in un quadro di solidarietà istituzionale, ripartire dal reale

Sempre più pressante si fa l’invito al Governo ed alle istituzioni amministrative per colmare la ostinata lontananza tra le decisioni prese e la loro concreta attuazione. E’ ormai del tutto evidente che riversare sulla burocrazia la responsabilità dei ritardi sia sostanzialmente un alibi, in quanto, invece, è mancata, già nel dispositivo dei provvedimenti adottati, la soluzione procedurale idonea ad accelerarne la rapida attuazione, bypassando le tradizionali sequenze attuative.  

Troppo evidenti le ricadute sociali e il malessere diffuso per la parziale erogazione di interventi che riguardano la stessa sopravvivenza di famiglie e imprese, come la cassa integrazione, l’accesso alla liquidità, la disponibilità dei bonus e di tutto ciò che, con enfatizzazione comunicativa, è stato presentato come risolutivo dei problemi determinati dalla crisi.  Troppo irritante la strenua difesa politica di ciò che appare inadeguato sul piano attuativo ed approvato con una forte dose di autoreferenzialità, senza un minimo di autocritica e di conseguente lavoro per smussare i punti di attrito e di inaffidabilità operativa.

Anche il quotidiano di via Solferino che più si era esposto nel comprendere le ragioni del Governo appare deluso e ha ospitato il 9 giugno  un editoriale ove Francesco Giavazzi scrive “non serve un libro dei sogni”, mostrando di prendere le distanze sul decreto liquidità (“un provvedimento evidentemente scritto male”), sulle   modalità di azione  (“anziché curare tempi e dettagli il premier lancia ogni giorno nuovi obbiettivi, troppo lontani nel tempo per costituire un calendario verificabile dell’azione di governo”), sugli  stessi “stati generali” (“non ce ne sarebbe bisogno”).

Altra fondamentale ragione di dissenso, infatti, riguarda la stessa attività del Governo, che, con l’utilizzo delle sue task force, sembra seguire una logica che si può definire calata dall’alto con un approccio generalizzato ai problemi dell’economia e interventi diffusi che, però, offrono risposte uniformi a problemi e realtà differenti. Chi oggi governa mostra di non conoscere, o meglio, di non possedere più gli strumenti e la capacità di comprendere la complessa realtà del Paese e quindi si rifugia in studi e proposte che sono poco in grado di curare la crisi o   di intervenire laddove è più necessario e utile per la ripresa produttiva. Il ricorso agli “esperti” per studiare ed apprestare i provvedimenti, tra l’altro, ha escluso le rappresentanze e le esperienze del fare impresa e, di conseguenza, le soluzioni ritagliate fuori della realtà sono destinate a rimanere in superficie.     

Il documento prodotto dal gruppo di lavoro di Vittorio Colao che dall’esame delle condizioni fa scaturire proposte operative, cambiamenti, soluzioni e progetti interessanti in alcune parti, anche se non facilmente realizzabili, segue questa stessa logica “centralista”. Sa troppo, come è stato detto, di “managerialismo” e di “scuole di business”. Il tutto appare più come un cappello fuori posto per l’avvio degli “stati generali dell’economia”.

Questa iniziativa di Conte che intenderebbe raccogliere analisi, suggerimenti e proposte a tutto campo, tuttavia, rivela un’idea èlitaria e assembleare della politica che, invece, si dovrebbe misurare nelle istituzioni parlamentari e locali per comprendere nel vivo le esigenze produttive e del lavoro.    

Non saranno le “ricette” tecnocratiche e le estemporanee iniziative assembleari a risolvere i problemi dell’Italia. Manca, nel Governo, la capacità e la volontà di avvicinarsi ai territori, agli specifici ambiti e filiere produttive, alle realtà minori o alle complesse periferie, ai bisogni di aree geoeconomiche che hanno storie e culture diverse e che forse proprio su queste fondano la loro ricchezza. L’economia locale e il made in Italy sono qualcosa che va sostenuto per la qualità e la specificità e non attraverso le categorie economico-produttive della cultura globalista e della sue teorie che vorrebbero spiegare e piegare tutto ad una logica uguale e omologante.

Gli interventi di incentivazione e gli investimenti, le politiche territoriali non possono prescindere da un approccio e da una vicinanza agli enti locali, da una verifica dei piani territoriali regionali, dall’ascolto non solo dei vertici associativi, ma delle loro articolazioni locali e di quel mondo di prossimità anche nel credito che conosce la vitalità e le esigenze della molteplicità italiana. Sostenere la voglia di fare impresa, anche nei settori innovativi, è un elemento identitario del nostro Paese. 

L’Italia, a suo tempo, ha realizzato lo sviluppo economico insieme allo sviluppo sociale. Produzione, riscatto sociale ed occupazione hanno, a lungo, camminato insieme. I modelli produttivi regionali e i loro sistemi di area, cresciuti ad una dimensione distrettuale hanno fatto scuola e cultura industriale e valorizzato comunità e centri urbani; la sofferenza delle migrazioni interne, ad un certo punto, è stata lenita dall’attenzione e dagli interventi nelle aree meno sviluppate. Si era riusciti ad avvicinare il Sud al Nord, prima con le autostrade e poi con l’Alta Velocità che però si è fermata in Campania e ci si è dimenticati della Sicilia. In questi ultimi decenni si è ripresentato il divario e la diseguaglianza, proprio perché quel modello italiano di economia sociale di mercato è stato messo di lato per seguire ricette neoliberiste, anche se in modo incerto e contraddittorio. La socialità dell’economia non si era identificata con l’assistenzialismo, come è invece accaduto recentemente, ma con lo sforzo congiunto pubblico privato con il quale, in pochi anni, era stata modernizzata gran parte dell’Italia.

Non occorre un libro dei sogni, studiato a tavolino. Basterebbe una capacità di individuare le priorità che derivano da una cultura fondata sul primato del lavoro, quell’attenzione ai mondi vitali dell’economia produttiva e liberarne le possibilità, basate su quella comprensione della realtà che le istituzioni della rappresentanza democratica dovrebbero possedere, ma alla quale la politica non sembra avere più la vocazione di volgersi e le istituzioni incapaci di misurarsi, non più abituate ed attente.    

Il governo Conte ha la capacità di questo ascolto?  E’ in grado, insieme a chi governa i territori e a chi in essi opera direttamente, di indagare fino in fondo la realtà, verificare le necessità, seguire le aspettative e finalizzare le risorse per la ripresa?

Il dibattito politico stenta a decollare condizionato dalle polemiche e dai retroscena. Ci si divide su tutto, ma ci si accorda per opportunismo, camuffato da senso di responsabilità. Ci si dimentica di confrontarsi su quanto è realmente necessario. Gli appelli alla solidarietà nazionale cadono nel vuoto. Non è e non può essere ridotta soltanto a formula politica, dovrebbe significare piuttosto una capacità di ascolto, di avvicinamento delle separatezze, insieme con la costruzione di un quadro di interesse generale, che ottenga, prima che sia troppo tardi, la giusta composizione delle tensioni corporative e territoriali e la pacifica collaborazione dei corpi sociali. Alla sua base c’è la necessità del dialogo e della collaborazione istituzionale.

Nella prima settimana di giugno c’è stata la ricorrenza dei cinquant’anni dall’avvio del processo che ha dato forma al regionalismo. Il Presidente Sergio Mattarella ha voluto ricordare che con esso si “compiva un ulteriore significativo passo in avanti, ampliando le sue basi e rafforzando il carattere pluralista delle sue istituzioni”, aggiungendo significativamente che “la libertà dei territori e l’autonomia delle comunità sono un contributo all’unità nazionale, nel quadro di leale collaborazione, tra i diversi livelli istituzionali. Le intese tra Stato, Regioni, Comuni, Province sono parte qualificante dell’azione di governo”.  E se il Capo dello Stato precisa che “le diversità, se non utilizzate in modo improprio, sono un moltiplicatore di crescita civile, economica, culturale”, una qualificata opinione come quella del professor Marco Olivetti avverte su Avvenire che “l’Italia è troppo complessa per essere governata solo dai Ministeri romani e la sua stessa unità potrebbe essere messa in pericolo indebolendo o addirittura eliminando le Regioni ordinarie”.

Capire e interpretare l’Italia, operare in un quadro di solidarietà istituzionale, ripartire dal reale. Lavorare con consapevolezza e lungimiranza.

Ecco il contesto rispetto al quale si dovrebbero misurare proposte e giochi di potere, collaborazioni o distinguo tra maggioranza e opposizioni o al loro stesso interno, ipotizzate o solo illusorie nuove formule di governo. 

Pietro Giubilo  




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