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22/05/2020
Ritorniamo ad essere comunità
Le realtà istituzionali locali sono chiamate ad uno sforzo sociale e culturale, oltre gli stessi aspetti assistenziali

La pandemia del covid-19 ha mostrato con durezza i suoi effetti devastanti. Non ci riferiamo a quelli di carattere sanitario che nel medio termine si stanno dimostrando affrontabili. La ricerca scientifica, l’organizzazione sanitaria e la farmacologia, infatti, hanno compiuto grandi passi in avanti e, come si è dimostrato per altre recenti perniciose epidemie, è possibile uscirne senza il drammatico bilancio di vittime che caratterizzò la vita collettiva fino a cento anni fa.

Le comunità, soprattutto occidentali, in larga parte organizzate secondo principi democratici che assicurano ampie libertà e opportunità individuali sono quelle che hanno dovuto subire una serie di privazioni, in parte tuttora in corso, il cui risultato è stato, certamente, quello di contenere la diffusione del virus, ma non mancano altre conseguenze destinate a incidere su economie e comportamenti per un tempo non breve.

Si è ricorso a strumenti normativi di carattere eccezionale - in Italia un esempio criticato da larga parte della cultura costituzionale è stato quello dei Dpcm - per limitare essenziali principi di libertà; oltretutto, per giustificare tale azione, si è sottoposta l’opinione pubblica ad una martellante campagna di informazione entrata nel profondo della psicologia delle popolazioni. In sostanza si è alimentato, a livello di massa, uno stato di ansia ed insicurezza, con la giustificazione che si doveva indurre a comportamenti responsabili e comprensivi dei rischi a cui si andava incontro. Una notazione a latere ci induce a rilevare che, nei media, sono state poche le parole di speranza e di fiducia, in quanto anche la cultura scientifica si è trovata divisa su cause e indicazioni di cura, su comportamenti e regole da stabilire. Mentre l’informazione ha privilegiato le notizie più drammatiche, le inadeguatezze e gli allarmi, l’ossessiva comunicazione quotidiana del numero dei morti e dei contagiati.  

Giuseppe De Rita in una intervista a “Il Mattino” ha commentato con asprezza questi aspetti: “La comunicazione utilizzata durante l’epidemia di coronavirus ha alimentato un meccanismo di paura, un ‘clima sospeso’ che ha determinato un ‘accentramento di potere’”. “E’ un meccanismo non casuale, ma scelto” ha precisato, “se alimento sempre più paura, la gente fa come dico io, anche in Inghilterra ed in altri Paesi si è agito così”.

Gli aspetti di positività sono arrivati innanzitutto dalla generosa disponibilità degli operatori sanitari che hanno compiuto un’opera non solo di carattere sanitario, ma di confortante valorizzazione di principi essenziali di solidarietà e di sacrificio che restano esempi di etica comunitaria di valore perenne. Anche le istituzioni più vicine alla gente, per la gran parte, hanno dimostrato di essere in prima linea in una instancabile attenzione verso ciò che stava accadendo, confermando che la politica non ha futuro se non in tale funzione di vera e profonda rappresentanza. Non hanno contribuito a migliorare l’animus delle popolazioni le incertezze dimostrate e le previsioni sbagliate da parte degli organismi internazionali (OMS) e la sensazione che intorno alla questione coronavirus si siano alimentati interessi commerciali e iniziative finalizzate ad un controllo di massa che, a parte gli aspetti lesivi di libertà, vengono avvertite come un allargarsi del divario tra potere e persona, tra élite e popolo.

Il covid-19 lascia una lunga sequela di incertezze e di disagi che gli “appelli” delle istituzioni non riusciranno facilmente a debellare. La stessa sfera economica e produttiva ne subisce gli effetti. Non è l’economia a determinare la crisi; essa subisce le conseguenze dell’insicurezza che ha trovato albergo stabile e che sollecita a muoversi di meno nei propri luoghi o nel circuito turistico; ad acquistare poco se non l’essenziale; a limitare la vicinanza non solo fisica e a sostituirla con strumenti telematici che non sono la stessa cosa dei rapporti sociali tradizionali. Anche lo smart working, se ottiene il positivo risultato di continuare a lavorare senza affrontare rischi e spostamenti, riduce, tuttavia, la vita d’insieme, asciugando quella che giustamente si definiva la comunità di lavoro. All’insicurezza inoculata dall’epidemia e dalle campagne antivirus, con la quale si è creata una condizione “entrata sotto pelle”, si aggiunge un cambiamento della propria vita in senso individualistico. Si accompagna a quello che il fondatore del Censis definisce la “verticalizzazione degli indirizzi da dare alle nostre relazioni sociali”. E’ un ulteriore passo verso quella “folla solitaria”, influenzabile, che la preoccupata riflessione di alcuni pensatori aveva indicato, come rischio della modernità.

Ma l’insicurezza come si contrasta? Cosa si può opporre alla sensazione di minaccia che continuerà a incombere su popolazioni che hanno subito drammi e assistito a immagini devastanti e per i cui comportamenti si sono decise norme eccezionali?

Il decorso declinante della malattia, il sostegno all’economia ed alla perdita del lavoro, il ritorno ad una normalità di comportamenti sono importanti, ma non risolutivi. L’uomo non è una entità biologica, non è fatto solo di tensione economica. I detrattori della sua “origine divina” non si potranno mai spiegare come l’uomo, lungo tutta la sua storia fin dall’apparire nelle età più antiche, ha sempre saputo vincere l’angoscia della morte. L’uomo sa di non essere solo. Bisogna pensare sin da subito a rioffrirgli certezze, solidarietà, la gioia della vita comunitaria: scuola, vita culturale, attività ludiche e sportive, incontri. Con la ripresa delle celebrazioni liturgiche, la Chiesa è ritornata a parlare all’uomo nell’ecclesia. Le realtà istituzionali locali sono chiamate ad uno sforzo sociale e culturale, oltre gli stessi aspetti assistenziali. Che facciano la loro parte, forzando le incertezze centrali. Così come i corpi intermedi, senza i quali non c‘è società viva.  Come diceva Romano Guardini: “Nessun uomo vive soltanto per se stesso ma, in quanto uomo, è nello stesso tempo, membro della collettività e vive in essa”. Ritorniamo ad essere comunità.

Pietro Giubilo




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