PRIMO PIANO
06/05/2020
Fase due: salute, lavoro e libertà
la seconda fase avrebbe dovuto presentarsi come il passaggio dal controllo sociale che qualcuno ha definito “esasperato” alla responsabilizzazione

Nella primaria esigenza di tutela della salute e nel difficile compromesso per non mortificare il lavoro, il governo Conte ha mostrato inadeguatezze ed un eccesso di autoreferenzialità, sotto copertura dei “pareri” dei troppo numerosi comitati tecnico-scientifici.

Si è constatato un divaricato rapporto con le Regioni, segnato da dirigismo ed, a volte, da uno stizzoso scarico di responsabilità di competenze centrali; poca chiarezza e tanta contraddizione nei provvedimenti dimostratisi di efficacia inversamente proporzionale alla enfasi comunicativa che, tra l’altro, ha nettamente prevalso rispetto alla esigenza della ricerca di una solidarietà istituzionale e politica. Clamoroso l’errore di puntare su una liquidità a debito e non su interventi a fondo perduto.

Nella drammaticità del momento, l’elemento di grande positività che è emerso, oltre alla straordinaria dedizione degli operatori sanitari, è stata l’eccezionale senso di responsabilità degli italiani che hanno affrontato il lungo “stare a casa” con forte consapevolezza comunitaria. Gli oltre due mesi di sostanziale fermo del lavoro, senza sostegni adeguati, rivelatisi a volte inattuabili per le strette maglie normative del sistema Italia, hanno reso indispensabile anticipare la ripresa delle attività produttive, con le adeguate garanzie per la salute, attraverso un percorso basato sulla responsabilità sociale.  Della quale gli italiani hanno saputo dar prova spesso nella loro storia anche in recenti calamità naturali. 

Sia il comportamento virtuoso degli italiani, dimostratosi un punto di tenuta, sia la gravità dei problemi determinati dalla lunga assenza di lavoro e produzione, avevano riversato sulla “fase 2” una aspettativa elevata, una voglia di ripresa, che non hanno trovato accoglienza nelle decisioni del governo. Decisioni che confermano aspetti di indeterminazione, come nel caso dei “congiunti”, e di fastidiose procedure di autocertificazione che non trovano riscontri in altri grandi Paesi europei. 

La seconda fase avrebbe dovuto presentarsi come il passaggio dal controllo sociale che qualcuno ha definito “esasperato”, alla responsabilizzazione. Si sarebbe dovuto cominciare ad affidarsi al senso di responsabilità piuttosto che ai divieti. Invece i provvedimenti hanno mostrato il contrario: “Ho colto una sfiducia nei confronti del senso di responsabilità dei cittadini italiani. Parliamoci chiaro, in questi due mesi i cittadini italiani si sono comportati benissimo", ha rilevato Ferruccio De Bortoli a proposito della conferenza stampa di Conte. Antonio Polito ha auspicato “una fase due creativa” fondata sullo stesso principio.

Sarebbe stato possibile passare dalla elencazione dei codici delle attività ammesse insieme alla conferma del distanziamento sociale, ad una più ampia apertura fondata soprattutto sull’applicazione dei criteri di distanza fisica per la garanzia della salute. Occorreva prevedere, in sostanza, l’indicazione dei requisiti ed assicurare la disponibilità degli strumenti di salvaguardia necessari per evitarne i rischi. Con la sin troppo ovvia diversificazione rispetto alle zone di maggiore o minore diffusione del virus, come richiesto dalle regioni. Ancora non si vede traccia di un complessivo piano di ripartenza su scuola, sociale e sistemi di comunicazione e che contemperi il contenimento del virus senza soffocare l’economia, soprattutto di alcuni settori vitali e senza tenere chiusi in casa gli italiani.

Sul prevalere dei nuovi, uniformi, limiti alla apertura delle attività hanno giocato un ruolo determinante sia una nociva logica che ha unito scienza e burocrazia, sia la de-responsabilizzazione del decisore politico, quella che De Bortoli ha definito “la paura di fare le scelte”. Ha influito anche una cultura assistenzialista e poco incline ad accettare l’idea dello sviluppo produttivo e del lavoro come elementi non solo economici ma, soprattutto, sociali, assolutamente necessari, anche con riferimento ad un principio di dignità.

Con casuale, ma puntuale circostanza, nei giorni della decisione sul come avviare la nuova fase è apparsa, anche sulla stampa italiana, un’intervista del presidente del Bundestag, Wolfgang Schauble che, ha voluto ricordare “il valore assoluto” ed “intoccabile” della “dignità delle persone”, tutelato nel primo articolo della Costituzione tedesca. 

Queste affermazioni hanno contribuito a dare nuovo peso ad altre due questioni che si intersecano nei provvedimenti sul coronavirus. La questione della coerenza tra gli strumenti normativi adottati dal premier Conte (Dpcm) e la Costituzione, che ha visto interventi critici di due autorevoli ex presidenti della Consulta, Sabino Cassese e Antonio Baldassarre, oltre che di qualificati giuristi cattolici. La compressione di diritti fondamentali avrebbe richiesto quantomeno una verifica istituzionale ex ante, come avviene per i decreti legge di emanazione del Presidente della Repubblica. Proprio il tema della libertà è stato evidenziato da una presa di posizione dell’ex presidente del Senato Marcello Pera, il quale ha rilevato che tra la “tutela della salute e della vita e… la libertà di spostarsi o di intraprendere”, il problema è che, in un “regime democratico” che “tale intende restare”, la “scelta” oltre che “giusta” debba essere decisa da “una catena di comando adeguata, trasparente, rassicurante”. La preoccupazione dell’ex senatore è che “la limitazione delle libertà, oggi giustificata con l’emergenza, lasci tracce insidiose domani”.

A tale proposito restano le incognite sull’adozione degli strumenti informatici circa la tracciabilità degli spostamenti. Vittorio Colao, in un’intervista, ne ha chiesto l’introduzione entro maggio, auspicando che venga applicata dalla “maggioranza degli italiani”, con l’assicurazione che l’anonimato deriverebbe dal sistema prescelto che riserva i contatti solo sui telefonini delle persone, senza centralizzazione. Per l’ex presidente della Corte costituzionale Cesare Mirabelli appare, comunque, necessario “un provvedimento con forza di legge” che “consenta anche al Quirinale e alla Consulta di esercitare il loro potere di controllo” e non, quindi, un Dpcm. L’intervento, per non presentarsi come un abuso, dovrà possedere i caratteri della “proporzionalità e ragionevolezza” rispetto all’obbiettivo, con i limiti di una “temporaneità della gestione dei dati sensibili”, prevedendo una “periodica informativa al Parlamento che deve poter esercitare in concreto i suoi potere di indirizzo e di controllo”, con una “commissione ad hoc” che vigili sulla sua adeguatezza e coerenza agli scopi di prevenzione. Queste cautele, autorevolmente indicate, si rendono necessarie di fronte a sistemi informatici che da un lato possono essere vulnerabili e che, peraltro, scontano aree di inefficienza della pubblica amministrazione. Condizioni indispensabili se si vogliono superare riserve espresse anche da esperti conoscitori della realtà italiana come Giuseppe De Rita, il quale si è dichiarato personalmente contrario, ritenendola “una esperienza inutile”.

Pietro Giubilo




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