Questa grave esperienza di emergenza sanitaria sta mettendo in evidenza molti aspetti positivi nella reazione delle persone, che in linea generale dimostrano ai diversi livelli un grande senso di responsabilità e di solidarietà. L’anima buona del Paese è solida ed emerge nei momenti di maggiore difficoltà. Anche la vicinanza mostrata nei nostri confronti da alcuni Paesi stranieri sia attraverso le istituzioni statali sia attraverso il coinvolgimento di strutture private (come Albania, Cina, Russia, Stati uniti) è un gratificante riconoscimento di quanto siano apprezzati all’estero la generosità e il carattere italiani, che le poche eccezioni interne non hanno la forza di incrinare. Tuttavia, non mancano criticità e lamentele.
Due in particolare meritano una piccola riflessione: una certa assenza dell’Unione Europea e la crisi delle imprese accentuata da quelle che sono state definite azioni di sciacallaggio di competitors europei. Che l’Unione Europea debba mostrare di avere la forza e la capacità di procedere a veri e strutturali cambiamenti tranedo profitto da questa situazione è fuor di dubbio. Ma è anche fuor di dubbio che le idee sono poco chiare e nebulose sono le prospettive: non basta dire che “dopo” non sarà come prima se non facciamo uno sforzo di costruzione del “dopo” sia spiritualmente, sia socialmente, sia politicamente, sia economicamente. Un primo riguarda l’assenza (o la scarsa presenza) dell’Unione Europea, di cui è evidente la poca solidarietà nei confronti dell’Italia e la resistenza a elaborare una progettualità per il dopo. La caduta di un principio di solidarietà reciproca (cioè non solo nei confronti di un Paese) ha una origine nella parallela caduta degli ideali, dei valori umani e della fede cristiana, che animarono i sette padri fondatori nel dar vita a un disegno di unità dell’Europa e specialmente di Alcide De Gasperi (proclamato servo di Dio), di Jean Monnet (testimone di un grande sforzo di unificazione e di integrazione), di Robert Schuman (proclamato servo di Dio), di Konrad Adenauer (un cattolico che, tra l’altro, si adoperò molto per la riconciliazione tra Germania e Francia). Essi erano credenti e testimoni, profondamente convinti che la politica dovesse fare un grande salto di qualità e di umanità, animata dai valori umani e cristiani, specie all’indomani della fine di una devastante esperienza bellica. Essi erano pragmatici e idealisti, convinti che “Gli Stati europei sono troppo piccoli per garantire ai loro popoli la necessaria prosperità e lo sviluppo sociale” (Monnet), che l’Unione Europea “non avrebbe rimpiazzato i singoli Stati ma li avrebbe aiutati a completarsi vicendevolmente”, che riconciliazione e amicizia erano virtù necessarie nel dopoguerra (Adenauer), che il processo di integrazione dovesse essere l’esercizio concreto e convergente di grandi iniziative come la CECA (Schuman). Purtroppo, la storia mostra che l’Europa ha dimenticato i valori umani e cristiani e sta perdendo il senso della unità e della fratellanza. Senza il fondamento di quei valori cristiani e umani, il progetto di unità corre il rischio di diventare un puzzle facile a disfarsi (forse non casualmente i fondatori avevano in mente un progetto di federazione piuttosto che di unione). Suscitano profonda preoccupazione sia l’attuale situazione di stallo sostanziale sia le decisioni restrittive dei parlamenti sovrani (da ultimo quella del parlamento ungherese di attribuzione di pieni poteri al loro leader) sia le affermazioni di alcuni autorevoli politici i quali, pensando al “dopo”, considerano come valore dominante gli interessi legati alla sovranità.
Quanto alla “sleale” concorrenza di competitors europei nell’accaparramento di fette di mercato, dobbiamo fare una analisi uscendo da un comportamento di “ipocrisia economica”. Il nostro Paese nella logica della globalizzazione ha consentito con grande tranquillità che in un recente passato fosse (praticamente) svenduto il patrimonio industriale a gruppi e società straniere, rischiando di diventare marginale nell’economia mondiale e rischiando di essere quasi completamente assoggettato ai Paesi del Nord Europa (numerosi sono nomi, facilmente reperibili su google, di industrie e marchi venduti nei vari settori: agroalimentare, chimica, manufatturiero, siderurgia, telecomunicazioni, abbigliamento, lusso…). Inoltre, la condizione del Paese nel panorama industriale internazionale si è ancor più aggravata per il fatto che i nostri imprenditori (trasformatisi in “prenditori” quando hanno capitalizzato per sé le industrie) si sono ritirati dalla scena mondiale senza fare l’operazione contraria, cioè acquistare le aziende all’estero: hanno solo incassato. Quindi, oggi la cabina di regia delle nostre industrie è all’estero ed è ovvio che quando il rischio economico si fa più evidente il “padrone” cerca di mettere i soldi nelle proprie casse.
Cosa fare? Prima di tutto fare un esame di coscienza, fare una analisi corretta, cercare insieme risposte vere. Ad esempio, anche per cominciare a recuperare i valori umani e cristiani di fondazione dell’Europa, esercitando la radicale sobrietà imposta da questa quaresimale pandemia, i vescovi europei potrebbero chiamare i cristiani all’esercizio di una solidarietà non solo intranazionale. Il Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa come frutto della comune preghiera elevata a Dio Padre per la difficile situazione sanitaria potrebbero invitare i cristiani europei a una comune azione ad esempio destinando il frutto di una giornata di digiuno a una concreta iniziativa di sostegno. L’unità delle chiese europee è fondamentale per l’unità dei popoli europei. Quanto al problema economico, è necessario riscoprire il valore dell’essere impresa come testimonianza di un’idea di progresso, animando un forum per l’elaborazione di progetti che richiamando la Dottrina sociale della Chiesa diano senso e significato al “dopo”. Anche in questa direzione i cristiani devono riprendere a esercitare responsabilità come soggetti sociali.
Gaetano Dammacco