Sette italiani su dieci vivono in città. Un dato che vede il nostro Paese leggermente in ritardo rispetto alle media delle nazioni ad alto reddito, che registrano una percentuale del’81,5 per cento. Dunque, più di 8 persone su dieci, prevalentemente in Occidente, vivono in aree urbanizzate. Un fenomeno comunque in crescita nel mondo intero, con megalopoli (da decine di milioni di abitanti) e nuove domande di amministrazione e gestione che si affacciano.
La dimensione urbana non è una variabile indipendente. Basti pensare a tre questioni che rovinano il sonno di tutti i sindaci del mondo: l’approvvigionamento e la distribuzione idrica, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, la mobilità urbana. Ovviamente la questione dello standard dimensionale non è secondario in un Paese come l’Italia che conta 14 aree metropolitane, rimaste sostanzialmente in un limbo giuridico-amministrativo, e città che vivono profonde crisi identitarie. Basti pensare al destino incerto di Roma Capitale che più che vivere e crescere ordinatamente, sembra piuttosto sopravvivere, sempre in bilico fra una domanda diffusa di assistenzialismo e ambizioni frustrate di sviluppo. Mentre Milano sembra aver vinto la sfida con la Capitale grazie alla sua capacità di cavalcare tutte le condizioni oggi necessarie per lo sviluppo: un’economia di mercato (anche finanziaria) vigorosa, un’amministrazione locale facilitatrice e non inibitrice, l’espansione dei trasporti (vedi il ruolo della Tav come motore e strumento di attrazione), la percezione diffusa di vivere in una società aperta, il valore del lavoro e del denaro, l’innovazione tecnico-scientifica.
Ovviamente l’Italia non è solo Milano o Roma. Anzi, per paradosso, è il laboratorio in cui più che in ogni altro Paese al mondo, torri e campanili sono il segno della molteplicità e della varietà di un territorio plurale. Così come è ben noto agli analisti politici che, per ulteriore paradosso, oggi il cambiamento politico è sempre più segnato dai divari territoriali, dal rapporto città-campagna, dalla dialettica tra centro e periferia, dalla divaricazione fra zone costiere e zone interne. Questioni non da poco, il cui peso è stato determinante nell’elezione di Trump alla Casa Bianca, ma anche in molti voti nazionali in Europa, così come persino nella Brexit (decisa, meglio ricordarlo bene, dalle popolazioni delle zone interne e delle città minori che hanno prevalso sulle élites europeiste londinesi).
Di tutta questa complessità e della sua specificità italiana, occorre farsi carico quando si chiamano al confronto gli amministratori locali italiani che vivono sulla propria pelle queste contraddizioni e che devono curare anche la propria rappresentanza e non mortificare i corpi intermedi con i quali sono in dialogo. Il tutto senza imboccare scorciatoie tecnocratiche, farsi suggestionare dalle sirene populiste o dalla semplice trasposizione di equilibri politici nazionali che spesso risultano inadeguati a corrispondere alle effettive esigenze delle singole realtà territoriali.
A ben guardare, una piccola-grande impresa che richiede una cassetta degli attrezzi molto fornita e attrezzata. Non solo sul piano dell’amministrazione che, già di per sé, oggi richiede un supplemento di responsabilità e competenza sia da parte di chi governa sia da chi sta all’opposizione negli enti locali. Il tutto supportato anche da una capacità di porsi in relazione, di ascolto e di dialogo con il tessuto vivo della propria comunità. E forse, questo è il nodo più intricato: saper ascoltare, saper interpretare la domanda sociale di persone e corpi intermedi, saper convogliare la richiesta di cambiamento verso una prospettiva di solidale cooperazione.
Per tutte queste ragioni è fondamentale promuovere occasioni di confronto fra gli amministratori locali, legati innanzitutto da una comune radice cristiana. E umilmente ascoltarli (come propone Mcl con l’Assemblea nazionale enti locali del 28/29 febbraio a Roma) per capire come, da cittadini, possiamo contribuire a dare voce a chi voce non ha.
Domenico Delle Foglie