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15/01/2020
La battaglia del popolarismo nel Pd
Per il politico spezzino ha obiettivamente sparigliato, aprendo una riflessione che controbilancia l'attenzione del segretario per LEU e la Cgil, le sardine e quel che รจ rimasto della sinistra storica, ormai spolpata da anni di grillismo.

La linea del Pd del futuro potrebbe farla Andrea Orlando e la ragione è presto detta. L'ex ministro è uno dei pochi che abbia conservato, nella storia e nella testa, i geni del comunismo. Da uomo di sinistra, dopo aver interpretato la stagione dei diritti civili, al termine della quale il partito si è reso conto di aver lasciato sul terreno milioni di voti, oggi punta sulla redistribuzione della ricchezza e su un nuovo modello di sviluppo, che possa rinverdire i fasti del pensiero socialdemocratico, cioè dell'unica ideologia sopravvissuta al crollo dei muri e dei salvadanai in Europa. Mentre Zingaretti, che dovrebbe essere il suo segretario, si arrovella su come spiegare agli iscritti che in Emilia-Romagna si può ancora vincere, Orlando guarda al dopo. Mentre il suo segretario pensa alle assise nazionali, ossia ad un nuovo congresso, lui getta ponti e tesse un progetto complesso.

Andrea Orlando è un giovane comunista degli anni Venti di questo secolo. Non è simpatico, non dice di voler rottamare nulla e nessuno, ma intanto ha mandato in soffitta la Cirinnà e la sua fissa di far sposare qualsiasi cosa per gettare un ponte verso gli ex dc in nome del riformismo comunitario, che nessuno sa bene cosa sia ma promette di riunire postdemocristiani e postcomunisti per contrastare l'emergenza populista. Un po' come il compromesso storico. Questo ircocervo unisce economia civile (Bruni e Becchetti), cattocomunismo (Delrio), socialismo radicale (lo stesso Orlando) e orfani del craxismo renziano (Martina). Una bella idea, se non fosse già venuta ad altri, negli ultimi quarant'anni, cioè da quando l'Italia ha campato - neanche male, finché ci sono stati i soldi - sull'accordo tra le due "chiese". Il più intelligente del gruppo postdemocristiano, Graziano Delrio, ci va cauto: a Torino, dove i riformisti comunitari si sono incontrati, ha negato che si tenesse a battesimo una corrente. Per quanto, nelle stesse ore, il duo Zingaretti-Bettini stesse lanciando il nuovo congresso del partito e il conto alla rovescia per la formazione di gruppi e gruppetti fosse già iniziato. 

In quel processo, il politico spezzino ha obiettivamente sparigliato, aprendo una riflessione che controbilancia l'attenzione del segretario per LEU e la Cgil, le sardine e quel che è rimasto della sinistra storica, ormai spolpata da anni di grillismo. La tesi di Orlando è che per vincere le elezioni e riconquistare uno spazio politico si debba parlare più di economia e meno di diritti civili. Era ora, verrebbe da dire. La sinistra fa qualcosa di sinistra. Riscopre il lavoro, la produzione, la redistribuzione della ricchezza tra le classi. Riscopre Marx. E lo sposa con Sturzo. Già, perché alla base dell'opzione Orlando vi è il dialogo con gli ex popolari e non col sindacato. Rispetto al percorso classico del pensiero socialdemocratico, si vira quindi verso la comunità e la persona, abbandonando il mito dello Stato settecentesco che non ha dimostrato di non essere attrezzato per fronteggiare quello tsunami liberista in cui si è risolta, in ultima analisi, la globalizzazione. Col pragmatismo dei grandi leader comunisti, Orlando ha scaricato la Cirinnà e vuole imbarcare Delrio. Abbandona l'idea dello Stato hegeliano, cioè recide la radice profonda del marxismo, che aveva messo il Leviatano moderno al servizio dell'idea del popolo, per intercettare le energie dei corpi intermedi, che il cattolicesimo sociale fonda sull'idea della persona, posizionata sempre al di sopra del popolo e dello Stato, per la banale ragione che la persona, considerata con tutte le sue relazioni sociali, è una realtà storica, sempre mutevole, mentre Stato e popolo sono, come in ogni ideologia che si rispetti, dei miti.

Non sappiamo dove porterà il ripensamento di Orlando, se cioè sia sincero e strategico o furbesco e tattico, né se prevarrà nel Pd, ma è una novità interessante e inquietante. Inquietante perché, come si è capito anche a Torino, i più restii ad abbandonare il mito statalista per abbracciare il riformismo comunitario sono proprio i cattocomunisti e gli eredi della tradizione democristiana, per due diverse ragioni. I primi sono ideologicamente legati all'idea dello Stato come regolatore della giustizia sociale. I secondi vi vedono un archetipo irrinunciabile del servizio pubblico. Se si eccettua il rapporto con il sindacato - non casualmente rappresentato al convegno torinese - quest'area politica ha sempre provato una certa estraneità al terzo settore e più che valorizzare i corpi intermedi della società ha sempre sostenuto le autonomie istituzionali. Paradossalmente, oggi, un laico di sinistra come Orlando, che ha sperimentato la vitalità di club e associazioni nelle battaglie ambientaliste e dei diritti civili, coglie le opportunità offerte da una valorizzazione dell'economia civile e della sussidiarietà più e meglio di un vecchio democristiano. Infatti, Matteo Renzi ha intuito e strumentalizzato questa debolezza ideologica per avviare il suo progetto di disintermediazione della politica e la timidezza con cui molti dei suoi ex seguaci guardano al popolarismo delle origini - malgrado la società e la politica abbiano dimostrato quanto bisogno c'è di spostare l'elaborazione delle decisioni nella società civile, limando le unghie dello Stato e del Mercato - rischia di abdicare ad un ruolo storico e aprire un varco di rappresentanza al leghismo, in nome del culto dell'autonomia locale, che è un'altra ideologia del secolo scorso ma che può essere facilmente fraintesa e conquistare voti e potere.

Stefano Giordano

 




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