Nessuna legge di Bilancio nella storia repubblicana ha avuto, nello stesso tempo, così forti contrapposizioni e ripensamenti tra le componenti della maggioranza e un’approvazione limitata alla sola lettura del Senato, senza alcuna discussione nell’altro ramo del Parlamento. E’ vero che quella per il 2019 del governo gialloverde non ebbe praticamente esame parlamentare, tuttavia non per polemiche interne, all’epoca ancora sopite, ma per il tardivo ok dell’Europa.
Le discussioni nell’ambito della compagine di governo si sono svolte in un clima confuso e contraddittorio, nella più vieta rissosità partitica, con continue verifiche, vertici lunghissimi, ritagli e spostamenti nell’entrata in vigore dei provvedimenti fiscali , compresa una irrituale salita al Colle del premier. L’impianto, già assai debole in quanto fondato, in gran parte, su nuovo deficit e presunti recuperi sull’evasione, tutti da verificare, ha dovuto ricorrere fino all’ultimo momento ad una spasmodica caccia ai 500 milioni di euro di copertura finale.
Questa “finanziaria” ha reso evidenti ed accentuato le diversità delle posizioni politiche. Un “termometro” che ha segnato rilevanti sintomi febbrili. I partiti della coalizione, con un occhio ad un possibile e ravvicinato tempo di elezioni che, comunque, vede imminenti e decisivi appuntamenti regionali, hanno pensato di porsi più in sintonia con gli umori di base che con le reali necessità del Paese. Italia Viva attenta a ridurre al minimo l’impatto fiscale e con un dichiarata opzione al 50 per cento per le elezioni; il PD puntando ad una immagine di ostentata responsabilità per tentare di sottrarsi dall’angolo nel quale lo colloca la tenaglia Renzi-Di Maio che spaventa quadri ed elettori; i pentastellati ostinati nel voler recuperare consensi presentandosi come decisivi, riaprendo la discussione su ogni singolo provvedimento; Leu quasi a tirarsi fuori per non essere coinvolto nelle diatribe altrui.
Nell’insieme il risultato è stato la dimostrazione di una sbiadita intenzionalità strategica, di un governabilità piegata sotto l’assedio delle apprensioni elettorali.
Sul confronto interno ha anche soffiato il vento di divergenze incolmabili su temi di imminente e necessaria decisione quali il MES e l’abolizione della prescrizione, sui quali si profilano distinzioni e rinvii. Se l’”album dei francobolli” della finanziaria poteva contenere un rimescolamento compromissorio, queste due questioni politiche che esaltano differenze identitarie hanno incalzato e influito sullo stesso iter della finanziaria, accentuando divisioni e incertezze future. L’opposizione ha ovviamente approfittato di queste divisioni per gonfiare le vele dei sondaggi elettorali.
Mentre si dipanava la matassa del Bilancio, negli stessi giorni è stato divulgato il messaggio di sintesi dell’annuale rapporto del CENSIS che ha riservato una sorpresa solo apparente: un Paese stanco e sfiduciato che nutre ancora qualche speranza nell’Europa, presenta una metà dei suoi cittadini (48,2%) che ritiene esservi la necessità di “un uomo forte che tutto risolve”, al di là di ciò che possono fare Parlamento ed elezioni. Gli stessi estensori spiegano questa larga opinione degli italiani con “l’inefficacia della politica ed estraneità ad essa”. E’ un segnale forte, come tanti indicati negli anni dal CENSIS, sul quale riflettere e non lasciar passare senza impegni consequenziali.
Sul dibattito istituzionale, in fondo mai archiviato, è apparso un altro elemento importante: la possibilità di una riforma elettorale proporzionale con sbarramento, sulla quale si stanno orientando le forze politiche, compresi i due leader che più si erano spesi per un sistema maggioritario: Salvini e Renzi. A questo punto l’introduzione delle nuove regole potrebbe arrivare con il suo messaggio di anticipata fine della legislatura.
Tuttavia, proprio lo scenario che si aprirebbe con l’approvazione di una legge elettorale proporzionale richiede un decisivo chiarimento per il nostro sistema politico. La esasperata conflittualità tra i partiti che ha caratterizzato questi anni insieme alla deresponsabilizzazione politica rispetto alla ”via giudiziaria”, con i suoi corollari moralistici; la permanenza di un costante richiamo elettoralistico di una classe politica che, in buona parte, appare improvvisata e inconsapevole della sua stessa funzione, devono lasciare il posto ad una nuova possibilità di partecipazione e ad un recupero di una visione complessiva dell’interesse generale. In sostanza ad politica nuova del rappresentare e del governare. La reintroduzione del sistema elettorale proporzionale, di per sé non può essere una palingenesi che non richiede un serio impegno nel senso indicato, cioè un ritorno delle forze politiche ad essere i primi sostenitori del senso comunitario. Un grande costituzionalista Costantino Mortati definiva i partiti come la “Costituzione materiale” della Repubblica. Senza questa intenzione, le stesse regole proporzionale finirebbero per accentuare la sordità di un sistema già divisivo. La forza politica che saprà rilanciare all’attenzione del Paese una via ricostruttiva della rappresentanza, magari raccogliendo quanto di positivo emerge dai territori e negli enti locali, è destinata ad avere un ruolo non contingente sul futuro dell’Italia. Il Movimento Cristiano Lavoratori che già in passato si è impegnato su tale essenziale questione, accogliendo la proposta del suo Presidente Costalli, ritornerà a febbraio ad ascoltare e a dibattere, insieme a centinaia di sindaci e consiglieri comunali che operano all’ombra dei “mille campanili”, sul futuro dell’Italia e della sua democrazia.
Pietro Giubilo