PRIMO PIANO
26/08/2019
La crisi è seria: non basta una formula qualsiasi
Un eventuale nuovo governo del Paese deve prendere coscienza del malessere profondo che formule di alleanze sbrigative non hanno alcuna possibilità di affrontare.

Le ragioni  che hanno prodotto la crisi sono  frutto di un  malessere sociale e istituzionale assai profondo.

I due ex alleati, nel procedere lungo i temi dell’agenda politica,  si erano andati trasformando  in rivali, proiettati solo ad accrescere i consensi e/o a  difendere la propria immagine, rinunciando ai doveri di una comune azione di governo. Esitazioni, divergenze, contrapposizioni senza che vi fosse un “luogo” di composizione e di accordo.  

Preso atto, ma anche un po’ complice di questa condizione, Salvini ha pensato che la soluzione fosse in una prova di forza, una crisi, cioè,  con la quale la via d’uscita l’avrebbe decisa  il popolo,  pronto ad andare alle urne. Il leader della Lega, tuttavia, non solo ha sbagliato i tempi, come ha detto il “saggio” Giorgetti, ma ha agito sottovalutando le complesse logiche parlamentari. L’errore più grave, poi,  è stato quello di ritenere politicamente possibile e immediatamente vincente un “listone”  sovranista ( “datemi i pieni poteri ”). La tentazione plebiscitaria in Italia nel tempo della democrazia  si è rivelata sempre fallimentare.

Renzi, con il suo peso maggioritario nei gruppi e la nota spregiudicatezza,  cogliendo le difficoltà presenti e successive di un anticipo delle urne,   ha ritenuto che fosse finito il tempo del dileggio verso i 5 Stelle, mostrato fino a quel momento,   ed ha impresso al percorso della crisi una svolta abile, ma  semplicistica. Per sbarrare la strada a Salvini bastava fare due conti: i numeri consentivano   un accordo senza particolari caratteristiche tra Pd e 5 stelle ( “non mi impicco alle formule” ),  anche perché ai numeri minimi si sarebbero aggiunti   un po’ di “responsabili”,  sempre reperibili e  pronti a restare in Parlamento, carpe diem,  fino alla scadenza naturale, per poi scomparire.

Zingaretti è stato preso in contropiede e ha dovuto, al momento, abbandonare il  suo iniziale proposito di andare alle urne,  motivato sia  per regolare i conti interni, sia per portare il Pd , nella peggiore delle ipotesi, ad essere il partito  sul quale costruire l’alternativa al “salvinismo”. Il sentiero della crisi, a questo punto, ha  rischiato  di essere, come è apparso nel dibattito parlamentare  sulle dichiarazioni di Conte, stretto tra le logiche “analoghe” di un Salvini sfascista e di un Renzi trasformista.

Sfuggono a questa logiche “parallele” quegli elementi che, responsabilmente, dovrebbero ispirare una soluzione non contingente, ma di ampio coinvolgimento: i problemi reali che hanno portato all’ incremento del consenso alla Lega; i temi del lavoro, della crescita e degli investimenti; la crisi della rappresentanza; come migliorare i rapporti con l’Europa per rendere percorribile uno sforzo straordinario per la ripresa del Paese.  Oltre ad obbiettivi programmatici largamente condivisi, un eventuale nuovo governo del Paese deve prendere coscienza del malessere profondo che formule di alleanze sbrigative non hanno alcuna possibilità di affrontare. Se non c’è tutto questo, negare il voto indirizzerebbe le cose verso il peggio. Anche perché tutte le ultime consultazioni elettorali hanno indicato uno spostamento dei consensi e non tenerne conto può determinare ulteriori frustrazioni e spinte qualunquiste.

Mattarella in questo caldo caos agostano è apparso come l’unico riferimento  di stabilità e di ragionevolezza istituzionale,  esplicitando la scelta che riporterebbe   la crisi  sui binari giusti: o un governo politico di legislatura o elezioni anticipate. Lo ha ribadito con fermezza al termine del primo giro di consultazioni. Un governo di legislatura significherebbe che la democrazia rappresentativa prende consapevolezza e si avvia nella direzione corretta; esso dovrebbe coinvolgere un’ampia maggioranza e non essere finalizzato al solo disinnesco del ricorso alle urne o alla tecnocratica logica di tipo “montiano”, per rassicurare i mercati. I problemi, non risolti dal governo uscente, premono e devono trovare riposte adeguate.  Risposte politiche.

Questa indicazione, chiarisce i limiti ed annulla i tentativi di ridurre questo passaggio ad una questione di formula politica, come è apparso  nelle intenzioni di Renzi   e, probabilmente, anche  nelle preoccupazioni elettorali dei grillini.  Zingaretti sembra attestarsi sulla indicazione del capo dello Stato, anche se, già nel suo stesso partito, oltre che in Parlamento, la tentazione di un accordo qualsiasi trova diffusi consensi. Nelle consultazioni con Mattarella il segretario del Pd avrebbe alzato l’asticella dell’accordo, provocando la reazione dei renziani, impegnati, come ha sottolineato Lucia Annunziata, in una trattativa parallela a quella del segretario. L’effetto rischia di indebolire la posizione dello stesso PD.

La verità è che l’accordo “a tutti i costi” di Renzi ( i suoi  parlano di “trattativa senza ultimatum e senza veti”) si scontra, obbiettivamente, con i rispettivi punti di intransigenza,  come, ad esempio,  la conferma di Conte premier e  il taglio non condizionabile  dei parlamentari, a cui   Zingaretti contrappone un lessico che sembrava desueto : “discontinuità”. Su queste ed altre precondizioni,  considerate “non negoziabili” da Di Maio, gli incontri tra le delegazioni di Pd e 5 stelle non hanno ancora prodotto un risultato certo.  Ci sono mine che potrebbero far saltare la trattativa? E riaprire un confronto con la Lega?

 Ma c’è dell'altro ed è fuori dalla portata del ”negoziato”. Sulla crisi interferisce in modo evidente la situazione interna ai democratici. Essa, come scrive Massimo Franco, rischia di dare alla possibile maggioranza un “orizzonte precario”. Il partito dovrebbe dimostrare, per la credibilità di un eventuale accordo, che il segretario ha la forza di sottrarsi al ritorno pragmatico di Renzi ed al suo approccio destabilizzante con finalità scissioniste, che è giunto sino a attaccare il Presidente del partito Gentiloni.  Non è questione del ruolo politico di Zingaretti, ma della interferenza di un “dualismo” che potrà essere micidiale per la stessa azione di un eventuale governo Pd-5stelle.     

Anche in questa circostanza si palesa il danno politico dell’assenza di un’area moderata, di centro, di ispirazione cattolica il cui compito sarebbe stato quello di riportare la crisi nei suoi termini reali e di manifestare la necessità di una cultura del confronto e dell’accordo, di ricerca di equilibri politici non su basi tattiche o di convenienze immediate.  In fondo questo è stato il lascito più importante del cattolicesimo politico e della sua visione di ancoraggio storico nella costruzione del percorso del Paese e delle proposte politiche di sviluppo e delle stesse alleanze e coalizioni di governo.

Pietro Giubilo

 

   

 




Via Luigi Luzzatti 13/a - 00185 ROMA - Tel +39-06-7005110 - Fax +39-06-77260847 - [email protected]
2012 developed by digitalset digitalSet