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01/08/2019
Da Montini a Paolo VI: la ricerca della conciliazione tra lavoro e fede
L’uomo attraverso l’attività lavorativa imprime, nel prodotto finale, il segno della sua intelligenza e del suo modo di sentire

Cinquantanove anni stanno passando, ormai, in silenzio su uno dei documenti di massima importanza relativamente alla formazione del pensiero cattolico sul lavoro. Si tratta del discorso che il cardinale GiovanBattista Montini tenne a Torino il 27 marzo 1960   e successivamente pubblicato nella “Rivista Diocesana Milanese”

 Senza tema di smentita, ritengo che questo sia il documento principe da cui nasce la visione moderna della dottrina sociale cristiana circa il lavoro e i lavoratori, a fronte di un pensiero che, nel passato, si è soffermato a riproporre, con poche modifiche, i concetti ottocenteschi della leoniana “Rerum Novarum”, che resta pur sempre la pietra d’angolo di ogni riflessione dottrinaria del mondo cattolico. L’intervento montiniano si pone a cavallo tra il radiomessaggio di Pio XII del 1941 e  l’enciclica Mater et Magistra di Giovanni XXIII del 1961. Tra i due documenti sono trascorsi appena venti anni, ma per lo mezzo c’è stato un secondo tragico conflitto mondiale e la faticosa ripresa economica e sociale, con una serie di formidabili trasformazioni tecnologiche che portano in sé altre contraddizioni: strumenti creati per l’uso civile che possono essere trasformati in altrettante armi di distruzione di massa, quasi come se l’esperienza della bomba atomica non fosse servita a niente.  Nei precedenti documenti pontifici la principale preoccupazione è la difesa della visione cristiana della società e, quindi, del lavoro, in contrapposizione alla visione socialista e capitalista che individuano nel lavoro un momento fondamentale per la scristianizzazione della società intera, nel contempo, le forze sindacali (Cgil, Cisl e Uil) si accontentano di minime rivendicazioni economiche abbandonando a sé stesso l’operaio e le sue condizioni di vita lavorativa, unitamente alla evidente difficoltà che le aziende attraversano ciclicamente nei periodi di profonda trasformazione della società e dei rapporti di lavoro. Gli anni sessanta, dobbiamo ricordarlo bene, sono stati anni di profondi capovolgimenti e l’Italia, avventurandosi nella fase di sviluppo economico, sente il bisogno di modernizzare le proprie strutture produttive e sociali.

 In tale contesto, il cardinale Montini, nel discorso torinese del 1960, lancia la sua sfida profetica: il lavoratore  non è un semplice produttore di merce; il lavoratore non è colui che per produrre merce vende la forza delle proprie braccia, della propria mente,  per ottenere un minimo di salario, oltretutto insufficiente alle proprie necessità quotidiane. Egli è il vero motore dell’industria, del lavoro nella sua globalità: L’imprenditore possiede i mezzi di produzione la materia prima da trasformare in prodotto, ma è l’operaio che muove i meccanismi della produzione e dello stesso guadagno dell’azienda; quindi, l’operaio è corresponsabile del profitto e ad esso deve partecipare equamente. E’ una sfida magnifica alla chiusura mentale di quei tempi e solo molti anni dopo le confederazioni sindacali rivendicheranno il diritto dell’operaio alla corresponsabilità nella conduzione dell’azienda. Si rivendica, nella posizione montiniana, il protagonismo dell’operaio e si supera, nello stesso tempo, la stantia analisi del semplice rapporto tra operaio e imprenditore spostando l’attenzione sull’uguaglianza dell’uomo davanti all’altro uomo. Tale uguaglianza, fa risalire l’uomo dal semplice basso rapporto lavoro-capitale, al lavoro inteso come opera dell’uomo e della sua intelligenza; in esso l’individuo vi modella la propria impronta e il proprio slancio umano e spirituale.

Quest’ultimo concetto non è casuale; esprime, invece, la necessità di riallacciare quel filo conduttore che lega la spiritualità al lavoro. In un tempo in cui il lavoro e la religione vengono considerati in antitesi, e la religione stessa come momento alienante e distruttiva dall‘ impegno nell’attività produttiva, Montini supera, anche , la visione che il lavoro sia la condanna che l’uomo ha subito all’origine dell’esistenza. Il lavoro è opera dell’uomo che, in quanto creatura di Dio, vi profonda quella tensione spirituale che gli deriva dall’atto creativo di Dio. Sono, queste, intuizioni luminose e illuminanti che troveranno largo spazio, in seguito, nelle due encicliche di Giovanni XXIII (Mater et Magistra  e la Pacem in terris); non sarà di meno il Concilio Vaticano II, ma Montini, divenuto pontefice col nome di Paolo VI, si ritroverà ad affermare tali concetti nuovamente dallo scranno universale e, quindi, si troverà nella necessità di dovere applicare quelle idee in una visione universale: l’uguaglianza dei rapporti tra gli uomini è fondamentale per la pace universale fra gli stessi uomini, è il fondamento del progresso tra gli uomini (Populorum Progressio). la Chiesa è al servizio dell’uomo che lavora nelle fabbriche, ma anche dell’uomo che lavora per superare le malattie e la miseria nei paesi di tutto il mondo. A seguito di una tale posizione, Paolo VI crea la Commissione Giustizia e Pace con Motu proprio del 6 gennaio del 1967. Da pontefice egli rivendica ancora ciò che aveva già espresso: “….una partecipazione più piena alle responsabilità, al di fuori di ogni oppressione, al riparo da situazioni che offendono la loro dignità di uomini”. Paolo VI ritiene inammissibile che il capitale proveniente dal lavoro dell’operaio non sia messo a disposizione della nazione, ma venga dagli imprenditori trasferito all’estero con grave danno alla crescita nazionale e del lavoro stesso.      

Eppure, come ogni profeta, non viene capito, perché nella vorticosa crescita degli anni sessanta, nell’esplodere delle contraddizioni tra capitalisti e lavoratori che porteranno agli anni del terrorismo, della lotta armata, si crea una spaccatura tra mondo del lavoro e la visione cristiana della vita.

Questo Paolo VI lo avverte e lo denuncia fortemente e pone l’attenzione su come nella società attuale capita di separare la religione dal resto della nostra esistenza: come la famiglia, il lavoro, e il resto dei bisogni reali dell’uomo.

Come pietra miliare si pone l’omelia per la Messa di Mezzanotte del Natale 1968 tenuta da Paolo VI presso il centro siderurgico di Taranto:

“Noi facciamo fatica a parlarvi. Noi avvertiamo la difficoltà a farci capire da voi. O Noi forse non vi comprendiamo abbastanza? Sta il fatto che il discorso è per Noi abbastanza difficile (in quanto) il lavoro e la religione, nel nostro mondo moderno, sono due cose separate, staccate, tante volte anche opposte (…) questa separazione fra il mondo del lavoro e quello religioso, quello cristiano, non esiste, o meglio non deve esistere”.

Paolo VI, approfondisce la questione e incoraggia i lavoratori a superare tale dicotomia.

 “Non abbiate timore che questa presenza, questa alleanza, vissuta nella fede e nel costume, voglia mutare l’aspetto, la finalità, l’ordinamento d’un’impresa come questa e di altre simili; voglia cioè, come volgarmente si dice, clericalizzare il lavoro moderno dell’uomo, ovvero frenare la sua espansione, opporre la finalità religiosa della vita allo sviluppo dell’attività umana, il Vangelo al progresso scientifico, tecnico, economico e sociale”.

Quindi, lavoro, progresso tecnologico  e il senso cristiano della vita non sono in conflitto perenne. Infatti:

“È questo un pensiero, un principio, che dovrà sempre più diventare sorgente di meditazione per l’uomo moderno, e suscitare in lui non l’orgoglio e la tragedia di Prometeo, ma quel sentimento primordiale e dinamico di simpatia e di fiducia verso la natura, di cui siamo parte e in cui siamo esploratori”.

L’uomo attraverso l’attività lavorativa imprime, nel prodotto finale, il segno della sua intelligenza e del suo modo di sentire:  “sentimento che si chiama meraviglia – sentimento di gioventù e d’intelligenza -, e che passando dall’osservazione incantata delle cose alla ricerca suprema della loro origine diventa scoperta del mistero, diventa adorazione, diventa preghiera”.

Alberto Fico

 

 




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