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18/06/2019
La resistenza delle toghe
Chi controlla i controllori?

Chi controlla i controllori? Gli arresti e le inchieste ai vertici della Guardia di Finanza offrono una risposta semplice: la magistratura. Ma chi controlla i magistrati? Qui la risposta diventa più complessa, perché non è risolutivo che a controllare i magistrati siano altri magistrati. Le toghe formano una casta o corporazione che dietro lo scudo dell’indipendenza nasconde una struttura e meccanismi di potere politico-correntizio che con l’esercizio della “giustizia” hanno poco a che vedere. Intanto, infuria la polemica per l’inaspettato “sì” a un emendamento leghista alla Camera dei deputati che introduce la responsabilità civile dei magistrati, equiparandoli a tutti gli altri cittadini nell’obbligo di risarcire le vittime degli errori commessi , nel loro caso per “violazione manifesta del diritto” oppure con dolo o colpa grave. Cari amici, io credo che si tratti di una norma di civiltà, e in linea con un’esplicita e grave condanna europea nonché col referendum che nel 1987 consegnò alle urne la volontà dell’80.2 per cento di italiani favorevoli al principio che “chi sbaglia paga” anche per i giudici, e se non cadesse in coda alla ventennale polemica sull’uso strumentale, politico, della giustizia.

È vero che il dibattito risulta inquinato dallo scontro politico, però è anche vero che il problema in questione è ultradecennale. Pensate alla infinita querelle berlusconiana, all’imbarazzo di Matteo Renzi quando fu indagato il padre, alle questioni riguardanti il padre di Luigi Di Maio ed alla situazione dei diamanti della Lega che investì Salvini. Cari lettori qui qualcosa non torna.

Allora torno al punto iniziale: chi controlla i controllori? Interrogativo che si pone per qualsiasi posizione “di controllo”. La parola chiave è proprio “controllo”. Nelle società di cultura anglosassone il metodo applicato alla formazione delle istituzioni e alla giurisdizione è quello che risale a Montesquieu e va sotto il nome di “checks and balances”, ossia “controlli e contrappesi”. È il principio per cui il sistema non riserva ad alcun potere una licenza assoluta, incontrollabile e incontrollata. Il succo della democrazia, in paesi come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, sta proprio nel contrappeso tra poteri che si controllano a vicenda.

In Italia lo sbilanciamento è sotto gli occhi di tutti e insieme allo strapotere della magistratura (che giudica e sanziona se stessa in termini di carriera e procedimenti disciplinari), emerge il problema della effettiva indipendenza e credibilità. Non basta che un magistrato che ha esagerato nel disprezzo delle regole sia sottoposto a vaglio disciplinare. Occorre che i controllori siano anch’essi controllati e al di sopra di ogni sospetto. La politica deve riconquistare dignità e autorevolezza. Vanno superati dogmi inattuali e smentiti dai fatti riguardo a una supposta e inesistente “superiorità morale della sinistra”. Bisogna che accanto a un’effettiva applicazione del principio del “checks and balances” si affermi un altro principio, quello della verifica.

La divisione dei poteri, nel nostro sistema democratico, è stata proprio per evitare ingerenze e soprusi. Ma da tempo questo equilibrio è stato rotto dai magistrati che quotidianamente fanno politica indossando la toga. Non è una novità, ma ciclicamente diventa un vulnus che frena l’azione legislativa del governo o del parlamento. Negli ultimi tempi, per esempio, nelle aule dei tribunali è venuta a crearsi una strenua “resistenza” alle misure e ai provvedimenti votati per contrastare l’immigrazione clandestina o per garantire la sicurezza nel Paese.

Laddove la sinistra è diventata elettoralmente marginale e politicamente irrilevante, l’opposizione ai decreti e alle direttive di Matteo Salvini viene fatta dai magistrati nelle aule dei tribunali. Si tratta di un’operazione sistematica iniziata l’anno scorso dalla procura di Agrigento con le indagini contro il numero uno del Viminale per il caso della nave Diciotti e continuata, passo dopo passo, a suon di sentenze pensate per smontare il decreto Sicurezza. È il caso, per esempio, dell’incessante attività di Luciana Breggia, presidente della sezione speciale per l’immigrazione e la protezione internazionale al tribunale di Firenze. Lo scorso 15 maggio ha negato al ministero dell’Interno la possibilità di impugnare un verdetto lasciando ai sindaci la completa autonomia in materia di iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo. Sulla stessa scia anche il tribunale civile di Bologna ha preso una decisione analoga smontando ulteriormente il decreto.

Gli esempi, come quello della Breggia, sono molteplici in Italia. Spesso i magistrati provano a sostituirsi ai ministri o ai politici eletti dal popolo. Se un tempo, lo facevano con inchieste fortemente politicizzate e dai contorni drammaticamente giustizialisti o dismettendo la toga e candidandosi in parlamento, ora puntano a imporre le proprie idee rileggendo, a loro piacimento, le leggi.

Io credo nelle parole dell’ex pm di venezia Carlo Nordio il quale disse: “che è ridicolo pensare che i grandi problemi nazionali possano essere interpretati, e tantomeno risolti, da un pugno di procuratori”. Eppure le toghe si sono sempre arrogate questo potere. E nessuno ha mai fatto nulla per toglierglielo.

 

Luca Cappelli

 

 




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