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04/12/2015
Dopo Parigi, tra paure e speranza
'Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli”

 Gli attentati di Parigi hanno reso evidente che le tragedie del mondo non sono lontane da noi, ma che sono qui. Per anni abbiamo vissuto con un ingiustificato senso di sicurezza, credendo che le crisi ci sfiorassero, ma che non ci riguardassero. L'11 settembre in fondo era avvenuto negli Stati Uniti, le guerre in Afghanistan e in Medio Oriente sembravano così lontane da noi, la crisi Ucraina ci lambiva senza apparentemente coinvolgerci in modo diretto, Charlie Hebdo e altri attentati, pur nel loro dolore, sono stati ritenuti eventi sporadici. Persino le migrazioni che ci riguardano direttamene, le stiamo vivendo come qualcosa di estraneo, che ci tocca, ma che in fin dei conti riguarda altri e non noi. In quella tragica serata di venerdì, questo velo è stato squarciato come il sipario del teatro Bataclan. Improvvisamente ci siamo scoperti deboli, insicuri, e per la prima volta abbiamo avuto paura. Mentre seguivamo lo svolgersi degli eventi sui social network o in televisione, abbiamo sentito tutta la nostra impotenza e questo ci ha fatto paura. Alcuni hanno provato ad esorcizzare la paura invocando immediate e terribili vendette, chiedendo a gran voce la guerra - come se non ci fossimo in mezzo già da anni -, evocando lo spettro di un grande scontro di civiltà. Così è sembrato ovvio chiedere la chiusura delle frontiere, l'espulsione degli immigrati, oppure fare pressione per non accogliere i profughi. E, magari, sperare di cancellare per sempre dalla faccia della terra il sedicente stato islamico con mezzi convenzionali o, ancor meglio, niente affatto convenzionali.

La sensazione che ciascuno di noi ha provato nella notte parigina è la disperazione di trovarsi schiacciati tra il nulla dell'Occidente e il terrore dell'Oriente, la disperazione che nasce dalla nostra incapacità di vedere una luce in mezzo a tutto questo buio. E come potrebbe essere altrimenti? Una civiltà che non vuole riconoscere la propria identità, che trasforma il confronto in conformismo, che non è più capace di dire che un uomo è un uomo e che una donna è una donna, che idolatra il diritto svuotandolo della giustizia, che separa il giusto dal buono e il bello dal vero, che crede che il vertice della libertà sia disporre della propria e dell'altrui morte, che teme sopra ogni cosa un bambino nato in una mangiatoia tra un bue e un asinello e quindi lo bandisce, potrà mai accorgersi se una flebile luce brilla all'orizzonte? Non se ne accorgerebbe neppure se la flebile luce fosse un incendio. Ci siamo lasciati sviare dalla teatralità di tutto questo male e non abbiamo guardato la generosità dei parigini che hanno aperto le loro case a quanti stavano scappando dai luoghi delle stragi, non abbiamo ascoltato il grido di rifiuto dell'odio di un marito che perso la moglie o dei genitori che hanno seppellito la propria figlia, né abbiamo voluto conoscere i tanti miracoli quotidiani in Medio Oriente, il più grande dei quali è il reciproco aiuto tra le comunità cristiane e musulmane. O meglio, li abbiamo visti, ne abbiamo scritto tantissimo, ma non abbiamo ritenuto che tutto questo fosse abbastanza per poter ripartire e cambiare il mondo. Bello, toccante, ma incapace di incidere nella storia, perché la storia la fanno altre cose.

Così, abbiamo preferito affidarci ad analisi sociologiche, politologiche, filosofiche, molte sciocche, alcune intelligenti e siamo annegati ancor di più nella nostra disperazione. Il colpo che abbiamo ricevuto è troppo grande per superarlo con dei ragionamenti, perché noi abbiamo vissuto sulla nostra pelle la massima espressione di quella che Papa Francesco chiama la "cultura dello scarto": essere rifiutati fino ad essere distrutti. E la "cultura dello scarto" è un'eresia della nostra civiltà, non di altre. Infatti il punto centrale non sono gli altri, siamo noi. Il punto centrale non sono le grandi scelte politiche, ma sono le nostre. Noi come vogliamo educare i nostri figli? Non ci sono tante alternative. Possiamo insegnare loro che il mondo è un luogo pieno male, un luogo dal quale proteggersi, che è meglio essere diffidenti, che è meglio guardarsi dagli altri. Possiamo insegnare loro ad essere degli scettici. Ma vivendo così potranno mai essere felici? Oppure possiamo insegnare loro che il mondo è un luogo pieno di meraviglie, di stupore, che l'altro porta con sé una bellezza senza fine. Possiamo insegnare loro che nel mondo c'è il male, ma che la realtà è costantemente generata da un atto d'amore di un padre che dona se stesso per i propri figli. Dalla prima posizione non nasce niente, dalla seconda è nata la nostra civiltà. In questo momento difficile siamo davanti alla scelta di fermarci con Ungaretti a dire che "si sta come/d'autunno/sugli alberi/le foglie", o fare un passo in più e riconoscere con Papa Francesco che "questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e opera".

Giovanni GUT

 




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