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08/09/2025
Quant’è dura la congiuntura in Italia ed in Europa
La stima rivista dei dati di contabilità nazionale italiani del secondo trimestre 2025 conferma una contrazione trimestrale del Prodotto interno lordo (Pil) dello 0,1% (era cresciuto dello 0,3% nel primo trimestre) e di un'espansione

La stima rivista dei dati di contabilità nazionale italiani del secondo trimestre 2025 conferma una contrazione trimestrale del Prodotto interno lordo (Pil) dello 0,1% (era cresciuto dello 0,3% nel primo trimestre) e di un'espansione dello 0,4% su base annua (dal +0,7% del primo trimestre). Il calo è imputabile alla caduta della domanda estera netta dei prodotti nazionali. Le esportazioni nette si sono, infatti, contratte dello 0,7% mentre le scorte e gli investimenti sono state le uniche componenti propulsive della domanda aggregata (consumi + investimenti), aumentati dello 0,4%, con la crescita dei consumi, sia privati che pubblici, che è stata neutra. Questo andamento non proprio roseo riflette il posizionamento europeo nello scenario mondiale. Lo spiega bene un recente rapporto del nostro Istituto di Statistica (ISTAT) sulla competitività delle imprese italiane. In questa fase, la guerra commerciale globale in atto ha colto l’Unione europea in una posizione più vulnerabile, a causa di un’apertura commerciale quadrupla rispetto a quella degli Stati Uniti e più che doppia di quella cinese. A ciò si somma un ulteriore elemento di difficoltà: il mercato unico europeo, nonostante gli evidenti progressi di integrazione, presenta tuttora notevoli rigidità (soprattutto a confronto con quello statunitense) che si manifestano in significative barriere non tariffarie agli scambi interni, in particolare nei servizi. In buona sostanza, dopo la crisi del 2008 la Cina si è riorientata su uno sviluppo più ‘interno’ mentre l’Europa ha puntato tutto sul modello trainato dalle esportazioni ed ora è sull’orlo del precipizio. Scrive il Rapporto: “tra la crisi finanziaria del 2007 e la pandemia era già osservabile una progressiva polarizzazione degli scambi, con una distinzione delle reti intorno ai due attori principali: Stati Uniti e Cina. L’Unione Europea è rimasta al momento nella sfera gravitazionale statunitense, con una intensificazione del commercio intra-area che, anche come reazione agli shock di inizio decennio, è proseguita almeno fino al 2022. Le prospettive future sono tuttavia molto incerte, alla luce dei recenti accadimenti politici ed economici nei rapporti tra UE e Stati Uniti”. La strategia europea era basata sulla convinzione che l’America avrebbe continuato a importare senza sosta fornendo anche sicurezza mondiale. Tutto questo con l’arrivo per la seconda volta di Donald Trump non c’è più. Nel contesto europeo l’Italia è particolarmente esposta. Considerato che questi cambiamenti per il Belpaese rivestono una importanza considerevole. Negli ultimi tre lustri difatti la crescita del nostro sistema produttivo è stata sostenuta prevalentemente dalla domanda estera, a fronte di una domanda interna debole o stagnante. La scelta è stata quella di orientare i propri flussi di export verso i mercati extra-UE, soprattutto quello statunitense ed oggi l’Italia si ritrova ad essere il paese europeo più esposto sui mercati extra europei. Dal 2019 le esportazioni italiane sono aumentate di quasi il 50% verso gli Stati Uniti e del 20% verso la Germania che ora è in panne. Detto diversamente i fattori che hanno guidato la progressiva integrazione commerciale dell’Italia nella rete degli scambi mondiali ora sono divenuti elementi di vulnerabilità. La presenza di ampi avanzi commerciali e l’esposizione alla domanda di pochi paesi, unitamente all’esigenza di ricorrere all’offerta estera per soddisfare il fabbisogno di fattori intermedi dei processi produttivi, hanno alimentato preoccupazioni circa la tenuta competitiva del sistema Italia nelle mutate condizioni commerciali mondiali. Mentre l’Europa si legava sempre di più agli Stati Uniti, il mondo è cambiato parecchio. Tra il 2007 ed il 2019 la Cina ha preso il posto degli Stati Uniti al centro della rete di scambi mondiali, in un contesto di progressiva polarizzazione delle relazioni commerciali attorno a questi due paesi. Ciò ha comportato una relativa marginalizzazione delle economie europee. Così, la guerra in Ucraina ha scompaginato l’industria europea accrescendo il disavanzo commerciale verso la Cina (solo per l’Italia ammonta a 34 miliardi). Proprio mentre l’Europa diventava una specie di appendice degli Stati Uniti, la Cina ha acquisito un peso molto maggiore sui mercati internazionali. Nel frattempo l’Italia ha puntato tutti i suoi soldi sul cavallo sbagliato: “gli Stati Uniti hanno fatto registrare una forte diminuzione della centralità” e di conseguenza “I paesi europei…si caratterizzano per una sensibile riduzione della propria centralità …con la conseguente perdita di rilevanza…all’interno della rete degli scambi internazionali”. Per motivi di spazio non possiamo entrare nell’interessante approfondimento dei vari settori compiuto dal documento. Ma ci preme ricordare solo che per gran parte dei comparti manifatturieri si è assistito ad una crescita della vulnerabilità dovuta ad una maggiore dipendenza dalle forniture estere a fronte di un calo dell’integrazione complessiva negli scambi internazionali. Il settore dei servizi è abbastanza al riparo proprio per via del suo basso grado di integrazione sui mercati internazionali. Il contrario di ciò che è stato raccomandato per decenni. Infine, l’Istat presenta un interessante analisi della vulnerabilità dei vari paesi al contesto internazionale. Il documento osserva che la “vulnerabilità dell’Italia risultava superiore rispetto a quello di Germania, Stati Uniti e Cina” e quello cinese era inferiore a quello americano. La dinamica è che “Dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso, gli Stati Uniti e la Germania hanno registrato gli incrementi maggiori di vulnerabilità, mentre la Cina è l’unico paese a registrare una diminuzione. A partire dalla crisi finanziaria, ed escludendo l’anno pandemico (2007-2019), la vulnerabilità di Stati Uniti e Cina si è ridotta (rispettivamente del 6 e del 19 per cento) mentre è aumentata quella di Italia e Germania (rispettivamente del 3 e del 25 per cento)”. Insomma, quando nel 2008 l’iceberg ha colpito l’economia mondiale, la Cina si è presa una scialuppa e si è allontanata rapidamente, gli Stati Uniti si sono presi un’altra scialuppa e anche loro si sono dati a gambe levate. Con l’Europa che è restata a bordo ed ora ne paga le conseguenze. 




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