Il programma economico radicale di Donald Trump
Nel tentativo di rilanciare la produzione, il candidato repubblicano promette tariffe radicali. I critici avvertono che causerebbero danni enormi e aumenterebbero le tensioni globali
La politica economica di Donald Trump, o almeno quella che si percepisce dalle sue dichiarazioni durante i comizi elettorali in giro per gli Usa o nei confronti elettorali con la sua rivale la democratica Kamala Harris, è vaga e basata su due concetti centrali che fanno parte del patrimonio culturale della destra populista americana a partire almeno dal 1800: la riduzione delle tasse ed il protezionismo. Con le dichiarazioni elettorali di Trump, non è sempre facile decifrare cosa sia un programma, cosa sia una spacconata e cosa sia uno stratagemma negoziale. Di sicuro, quando Trump si sfoga davanti a un pubblico amichevole, bisogna prenderlo con le molle. I punti principali di ciò che Trump chiama ‘Maganomics’ includono tariffe più aggressive sulle importazioni da tutto il mondo, soprattutto dalla Cina, e una repressione draconiana dell'immigrazione. Trump spera che le barriere commerciali non solo aumenteranno le entrate, ma porteranno anche al ripristino della produzione manifatturiera statunitense. La retorica della campagna elettorale spinge anche per una maggiore influenza politica sulla politica monetaria e sul dollaro. Al centro della ‘Maganomics’ ci sono idee che capovolgerebbero molti aspetti del modello economico adottato nelle economie industrializzate nell'ultimo secolo. Se promulgate, infatti, rappresentano un ritorno a un'epoca in cui consistenti fette di entrate governative provenivano da tariffe commerciali, piuttosto che da tasse sui redditi delle persone e sui profitti delle aziende. Nella lista delle idee politiche non sperimentate dell'ex presidente Donald Trump, l'eliminazione dell'imposta federale sul reddito e la sua sostituzione con entrate derivanti da dazi alle stelle sulle importazioni è una delle più dannose. Essendo un'idea profondamente problematica per diversi motivi. Per cominciare, costerebbe posti di lavoro, riaccenderebbe l'inflazione, aumenterebbe i deficit federali e causerebbe una recessione. Sposterebbe anche l'onere fiscale dai benestanti ai meno abbienti, aumentando sostanzialmente l'onere fiscale sui poveri e sulla classe media. Poi c’è il problema delle grandezze in ballo nella compensazione. Le tariffe sono imposte sui beni importati, che ammontavano a 3,1 trilioni di dollari nel 2023. Le imposte sul reddito sono applicate sui redditi che superano i 20 trilioni di dollari; il Governo degli Stati Uniti al momento raccoglie circa 2 trilioni di dollari in imposte sul reddito delle persone fisiche e delle società. Pertanto è letteralmente impossibile che le tariffe sostituiscano completamente le imposte sul reddito. Le aliquote tariffarie dovrebbero essere incredibilmente elevate su una base così piccola di importazioni per sostituire l'imposta sul reddito e, con l'aumento delle aliquote fiscali, la base stessa si ridurrebbe con la diminuzione delle importazioni, rendendo irraggiungibile l'obiettivo di 2 trilioni di dollari fissato da Trump. I senior fellow del PIIE Maury Obstfeld e Kimberly Clausing avvalorano questo ragionamento stimando che la quantità massima di entrate aggiuntive che l'Amministrazione possa raccogliere, applicando una tariffa del 50 percento su tutto, sarebbe di 780 miliardi di dollari. Durante un comizio elettorale a Tucson, in Arizona, agli inizi di settembre, Donald Trump ha offerto al pubblico un po' della sua solita spavalderia da campagna elettorale. Ha affermato di aver ottenuto una vittoria ‘monumentale’ su Kamala Harris nel loro dibattito presidenziale di due giorni prima e ha raddoppiato le sue controverse false affermazioni secondo cui gli immigrati haitiani rubano e mangiano animali domestici (i poveri gatti). Ma una parte significativa del discorso dell'ex Presidente si è concentrata sull'economia, promettendo di porre fine al "caos e alla miseria" che gli americani hanno vissuto sotto l'Amministrazione di Joe Biden. Vi è insomma la volontà di intensificare la guerra commerciale con la Cina e portare la tariffa doganale media per tutti i paesi che scambiano con gli Usa al 10%. Cosa richiederanno queste misure. Meno tasse e più dazi comportano un’espansione della domanda interna, la quale impedirà la discesa dell’inflazione, con il corollario dell’aumento dei costi di produzione, fattore questo che provoca la diminuzione della competitività relativa del paese. La conseguenza delle politiche trumpiane quindi sarà un abbassamento relativo del livello di vita degli americani. Il think-tank ‘Peterson Institute for International Economics’ [PIIE] di Washington calcola che tariffe generalizzate del 20 percento combinate con una tariffa del 60 percento sulla Cina innescherebbero un aumento fino a 2.600 dollari all'anno di ciò che una famiglia media spende in beni. E qui potrebbe sorgere un problema: come risponderà Trump agli indicatori economici avversi che arriveranno soprattutto sul fronte dell’inflazione e dei tassi d’interesse? Una possibile risposta l’ha già fornita in molte occasioni e passa per la Federal Reserve. Trump vuole, infatti, metterne in discussione l’indipendenza per costringerla a tenere bassi i tassi d’interesse. Risultato di questa politica? L’inflazione potrebbe andare fuori controllo. Inoltre c’è un altro problema: i dazi doganali non solo impoveriscono il paese che li mette, ma chiamano altri dazi come risposta da parte dei paesi colpiti. Il rischio quindi è che Trump scateni la reazione del resto del mondo contro i suoi dazi, i quali applicheranno a loro volta dazi sui prodotti americani, che a loro volta chiameranno la reazione di Trump in un crescendo di dazi doganali che alla fine potrebbe portare al collasso del commercio mondiale. L’ultima volta che il globo ha vissuto uno scenario simile fu durante la grande depressione seguita alla crisi del 1929 quando proprio gli Usa introdussero la Smoot-Hawley Tariff Act. E’ opinione ormai accettata da tutti gli economisti che proprio questa misura protezionistica abbia contribuito a far ulteriormente collassare l’economia mondiale negli anni ’930. In questo contesto l’unica misura sensata che l’Europa potrebbe adottare è utilizzare una strategia avanzata di scontro: il tit for tat. Questa è una strategia molto efficace nella teoria dei giochi. Il nome, una locuzione inglese che corrisponde all'italiana ‘pan per focaccia’ deriva dall'espressione ‘tip for tap’ che potrebbe essere tradotta con ‘colpetto per colpetto’, ovvero piccola ripercussione a fronte di una piccola provocazione. Seguendo questa strategia se Trump dovesse introdurre dei dazi sui prodotti europei, inizialmente nessuna ritorsione, se non altro perché il 10% di tariffa doganale non dovrebbe avere impatti devastanti sulle ragioni di scambio europee. Se continua però nella sua strategia, allora possiamo introdurne anche noi, ma mirati ad esempio sulle aziende facenti parte della sua base elettorale. Al terzo turno torniamo collaborativi, per poi riprendere eventualmente lo scontro al quarto turno. La speranza ovvia è che dopo il primo round di dazi, Trump si fermi e che alle prime elezioni di mid-term del 2026 perda il controllo del Congresso. Ma qui siamo alla mera speculazione. A mo’ di conclusione. La strategia di Trump, e per riflesso anche quella della Harris, si basa sul fatto che i voti si ottengono spostando i costi nel lungo termine, creando costi nascosti e diffusi e benefici concentrati e ben visibili nell’immediato agli elettori, usando la legislazione per erogare favori alle clientele, aumentando la spesa e il debito per comprare voti. Questi ultimi si ottengono buggerando le persone considerato che queste ultime non hanno incentivi a ragionare ed informarsi, e nel momento in cui non c'è motivo di prendere decisioni coerenti si usa la politica per altre finalità, come l’espressione di un voto di protesta. In politica moltissime persone propongono politiche dannose senza saperlo solo per il piacere di sentirsi più giuste. Questo sistema di corruzione di massa è frutto della strategia più efficace per vincere elezioni. Non c'è modo di evitarlo. Attualmente in democrazia le forze della degenerazione sono molto più forti e sistematiche delle forze della rigenerazione e questo ci porta ad essere pessimisti sugli scenari futuri che si dipaneranno a partire dai risultati delle elezioni americane di novembre.