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16/09/2022
La riduzione delle tasse è sempre efficace?
Per rilanciare la crescita bisogna anche rendere flessibili tutti i prezzi dei fattori della produzione e aumentare l’efficienza della pubblica amministrazione.

Quando si parla di riduzione della tassazione, e questo avviene sempre con maggiore intensità in prossimità di scadenze elettorali (vanno acchiappati i consensi), va tenuto conto che l’efficacia del provvedimento dipende da come il Governo intenderà finanziare questo vuoto di entrate fiscali che si genererà. Non esistono, infatti, pasti gratis da consumare. Va detto subito a scanso di equivoci. Le strade percorribili pertanto sono tre: i) facendo nuovo deficit pubblico (nuovo scostamento di bilancio come va di moda dire oggi); ii) aumentando la tassazione per qualche categoria di contribuenti ed utilizzando il nuovo gettito per abbassare le tasse a qualche altra; iii) tagliando la spesa pubblica ed utilizzando i risparmi di spesa per ridurre il peso fiscale. Vediamo le tre alternative in dettaglio. La prima, quella a prima vista più agevole, è quella praticata da molti governi in giro per il mondo. A partire dal primo dopoguerra: seconda metà degli anni quaranta. Nella maggior parte dei casi il finanziamento in deficit della spesa, seguendo un ‘keynesismo idraulico’ ha stimolato da un lato la crescita economica ma dall’altro il maggiore deficit non è mai stato riassorbito dalla crescita economica via le maggiori entrate fiscali. La riduzione fiscale fatta in deficit però stimola la crescita del Pil ma ancor di più quella del debito pubblico che alla fine dovrà essere messa sotto controllo e questo richiederà un aumento delle tasse. Il cane alla fine arriva a mordersi la coda. Fine della fiera. La seconda è il cavallo di battaglia dell’estrema sinistra. In questo schema di analisi la crescita economica debole è dovuta ad una cattiva distribuzione dei redditi che avvantaggia solo i possessori del capitale e non i salariati e gli stipendiati.

Il maggiore reddito che viene ‘distribuito’ alle classi ‘capitaliste’, porta il sistema economico ad avere un eccesso di risparmio e di converso un vuoto di consumo che genera un vuoto di domanda aggregata (consumi più investimenti). Ecco allora la pietra filosofale: prelevando con la tassazione una quota anche consistente del reddito dei ricchi e distribuendolo poi alle fasce più povere della popolazione, si riattiverebbe il consumo permettendo così un aumento della crescita economica. Ora, tutta questa teoria, è campata in aria. Questo perché la classe dei ricchi non tesaurizza il reddito nelle damigiane di vetro, e anche la parte che risparmia non viene ‘tolta’ dal sistema economico. Il risparmio o è investito direttamente in attività produttive (le azioni) o se parcheggiato nelle banche o in altre forme di investimento non attivo (depositi, obbligazioni, titoli di stato, etc.) viene nel contempo investito in attività produttive dai rispettivi intermediari che raccolgono i risparmi (banche, società, stato, etc.). Pertanto la maggiore tassazione di un soggetto, andrà semplicemente a diminuire la sua domanda aggregata, che ricordiamo è data dal consumo ma anche dagli investimenti, lasciando inalterata la domanda aggregata globale e quindi la crescita economica. Ma allora, se una riduzione fiscale non sortisce effetti positivi se finanziata in deficit-debito o tassando le classi sociali più facoltose, qual è la strada per stimolare l’economia aumentando la crescita? Risposta: riducendo la pressione fiscale seguendo la terza strada accennata all’inizio. Ma perché un taglio della spesa pubblica con successiva riduzione fiscale dovrebbe stimolare l’economia? In fin dei conti non è lo stesso meccanismo visto sopra della domanda aggregata che rimane inalterata con la tassazione dei ricchi? Si, lo è, ma solo nel breve periodo.

Nell’immediato, infatti, un taglio della spesa pubblica con riduzione successiva delle tasse lascia in effetti inalterata la domanda aggregata. Ma nel lungo periodo le cose cambiano. Perché? La risposta è solo una: aumenta la produttività. Il lievito del sistema produttivo. La spesa pubblica, infatti, è generalmente meno produttiva di quella privata. Pensate infatti al riguardo anche solo ai miliardi che lo Stato sta buttando per tenere in vita le aziende zombie: in perenne perdita. Spostando risorse dal settore pubblico verso quello privato quello che si otterrà sarà un aumento del tasso di crescita strutturale dell’economia che in Italia è oggi poco sopra lo zero. Ovviamente per rilanciare la crescita non basta solo questo provvedimento. Bisogna anche rendere flessibili tutti i prezzi dei fattori della produzione, aumentare l’efficienza della pubblica amministrazione e soprattutto, aumentare il livello di concorrenza interna del paese, perché altrimenti, il rischio è quello di sostituire il monopolio pubblico con quello privato. Visto che i monopoli sono un danno per il paese chiunque ne sia il proprietario. Ma su questo punto ci sono forti resistenze. Quindi, concludendo, la riduzione della tassazione non solo si può, ma anzi si deve fare. Ma ha senso farlo solo dopo un taglio della spesa pubblica. Ogni altra ipotesi non solo non rilancia strutturalmente la crescita, ma anzi rischia di appesantirla nel futuro col fardello del debito pubblico.

Marco Boleo




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