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14/01/2021
Cento anni dopo: il PCI di Togliatti e Berlinguer
Il centenario della nascita del partito, in fondo, non può costituire l’occasione di una evocazione storica positiva dei suoi principali protagonisti

L’intelligente storico e già direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli, a inizio d’anno, ha scritto un interessante articolo il cui titolo (“E Togliatti rifondò il PCI. Il ‘partito nuovo’ forgiato nel 1944 era ben diverso da quello nato nel 1921”) pone in rilievo, giustamente, il ruolo fondamentale avuto da Palmiro Togliatti nei due momenti “costitutivi” dell’organizzazione politica dei comunisti italiani. Poiché la figura del dirigente comunista e alcuni passaggi storici, pur lontani nel tempo, rappresentano episodi decisivi non solo per la sinistra italiana, riteniamo interessante ripercorrere quei fatti, alla luce di considerazioni lontane da compiacenti interpretazioni.

Il Pcd’I e i rapporti con Mosca

A gennaio del 1921 a Livorno nasceva il Partito Comunista d’Italia. La denominazione scelta mostrava come tale formazione politica facesse parte di quella Internazionale comunista che, poi, a seguito della svolta staliniana, venne a trasformarsi in un insieme di partiti diretti da Mosca e orientati secondo gli schemi e le strategie dell’allora capo del Cremlino.

In quegli anni, infatti, la questione che emerse e che, anche in seguito, ha impegnato molte intelligenze storiografiche non conformiste, fu quella del rapporto tra i partiti comunisti nazionali e la Russia ove si era affermata la Rivoluzione di ottobre.

Nel primo Paese socialista, la prospettiva leninista, con la morte del suo ispiratore, in poco tempo, aveva lasciato il posto a quella del suo successore, Josif Stalin. Per la verità, chi si batté, allora, affinché il PCd’I, pur in una visione internazionalista, non si rassegnasse ad essere alle dipendenze di Mosca, fu il protagonista della scissione di Livorno, Amadeo Bordiga. Come ha scritto il noto politologo Giorgio Galli, recentemente scomparso, nella sua famosa “Storia del PCI”, già nel 1924, con la morte di Lenin, la “situazione russa condizionava sempre più la strategia, la tattica, la struttura dell’Internazionale, i partiti non russi non la potevano neppure discutere”. “Si faceva strada - secondo Galli - la teoria del “socialismo in un solo Paese”, in base alla quale si affermava possibile l’attuazione del socialismo nell’Urss anche in assenza di rivoluzioni proletarie vittoriose in Occidente, abbattendo in tal modo uno dei pilastri della concezione di Lenin e dell’intero partito sino al 1924”

In effetti “il primo leader del Partito comunista d’Italia”, come lo definisce la storica Natalia Terekhova (“L’Ottobre in Italia: Serrati, Bordiga, Gramsci”), opponeva una strenua resistenza alle direttive filo sovietiche della Internazionale, rifiutando gli inviti a Mosca, ponendosi in una posizione di minoranza, fino al punto, come scrive, che “il 22 febbraio 1926 a Mosca, durante una riunione dei comunisti italiani con Stalin, Bordiga osò porre una domanda diretta su legame tra lo sviluppo della rivoluzione in Russia e la situazione internazionale che, per la sua audacia, mandò su tutte le furie il leader sovietico”. “Stalin -  prosegue la storica - si mostrò allibito e, ateo com’era, commentò con la frase 'Dio vi perdoni l’intervento dell’italiano spericolato'”. “Dopo questa scena - conclude la Terekhova - arrivò l’inesorabile isolamento di Bordiga nel Pcd’I: nel 1930 venne espulso”. Anche Gramsci nel 1927 si preoccupava e, come scrive Galli “pur considerando giusta la linea Stalin Bucharin e errata quella degli oppositori (Zinoviev- Trotsky) chiedeva, con una lettera indirizzata a Stalin, che non venissero assunte misure eccessive”, come poi invece avvenne. In questi frangenti Togliatti, divenuto membro del segretariato dell’Internazionale, mostrò la lettera di Gramsci al solo Bucharin, agendo, commenta Galli, con “estrema prudenza nell’esercizio della sua nuova funzione di responsabile della segreteria politica del Pcd’I, carica che assunse alla fine del 1926 per non abbandonarla più”.

La “svolta di Salerno”

Un Togliatti ossequioso ai voleri del dittatore sovietico, si presentò, peraltro, anche nelle scelte che precedettero il secondo dopoguerra, quando i comunisti rientrarono nella scena della politica italiana. In quegli eventi, secondo Mieli, ha modo di mostrarsi il “partito nuovo”.  Per la verità l’obbiettivo strategico di Togliatti, nell’aprile del 1944, non nasceva come elaborazione di una interpretazione nazionale del comunismo, ma su ragioni che oggi definiremmo “geopolitiche”.

Come ha sottolineato, a suo tempo, lo storico Francesco Perfetti (“La Repubblica (anti)fascista”), “la ‘svolta’ consisteva nell’accantonamento sino alla fine della guerra della questione istituzionale e nella partecipazione dei partiti, compreso quello comunista, al secondo governo Badoglio”. Su tale indirizzo della politica togliattiana, il direttore di Nuova Storia Contemporanea contesta la interpretazione “di molti storici comunisti italiani”, i quali sostengono “la genialità e l’intelligenza di Togliatti nell’additare una scelta che implicava il riconoscimento del carattere democratico del Partito Comunista Italiano. Essi - precisa - hanno continuato a negare il fatto che l’idea stessa della ‘svolta’ potesse essere farina del sacco di Stalin”. Perfetti richiama, per contro, quanto pubblicato dal ricercatore russo Vjaceslav Kolomiez, il quale ha sostenuto che i risultati della “rivoluzione degli archivi” in Russia hanno, invece, confermato “categoricamente la tesi del prioritario apporto dei dirigenti di Mosca e di Stalin in prima persona per determinare la ‘svolta’”.

Su tali vicende, poi, ci si deve riferire ai lavori di Elena Aga Rossi. Anche recentemente, in un suo saggio di grande spessore (“L’Italia tra le grandi potenze”), la storica ha ribadito la sua tesi e cioè che “fu Stalin stesso nel 1944 a indicare ai segretari dei partiti comunisti italiano e francese, al momento del loro ritorno in patria, rispettivamente nel marzo e nel novembre 1944, le linee direttrici di un corso politico di collaborazione con le altre forze politiche e di unità nazionale, teso a favorire l’ascesa al potere  per via parlamentare  delle coalizioni di sinistra guidate dai partiti comunisti  e come premessa per l’avanzamento del socialismo nei singoli Paesi  dell’Europa occidentale”. La “svolta di Salerno”, quindi, non solo “fu decisa a Mosca e poi fu attuata da Togliatti”, ma con essa “erano annullati otto mesi di netta contrapposizione alla monarchia per appoggiare un governo che si era compromesso con il regime fascista” e in tal modo, scrive la Rossi “si è costruito da parte dei politici e degli intellettuali comunisti il mito del partito che si è posto sin dall’inizio il problema del distacco da Mosca e l’obiettivo di seguire una ‘via italiana al socialismo’”

Rivisitare Berlinguer

Questo mito, secondo l’articolo di Mieli che abbiamo citato all’inizio, si arricchisce, nell’anno del centenario del Pci, della tesi esposta, in un recente saggio (“La metamorfosi”), da Luciano Canfora, recensito dall’ex direttore del Corriere della Sera, in base alla quale Togliatti in quegli anni, si sarebbe impegnato nella “ricerca ostinata della collaborazione con la Dc”. Tuttavia ciò che è maggiormente interessante, rispetto a tale forzatura, sono le considerazioni dell’illustre studioso dell’antichità classica, sull’ultimo personaggio di livello storico della sinistra comunista, cioè Enrico Berlinguer, da lui definito “ondivago tra compromesso storico e alternativa di sinistra” e “la mai chiarita e misteriosa terza via”.

Soprattutto colpisce nell’analisi del “Rosso Canfora” il ridimensionamento di quella “diversità” comunista, spesso glorificata oltremisura. Infatti, scrive Mieli nella recensione: “Canfora rinfaccia a Berlinguer l’impasto tra un po’ di spontaneismo sessantottesco nell’erronea convinzione che fosse quello lo strumento per ‘agganciare’ le nuove generazioni” nonché il “vagheggiamento” di una “diversa qualità della vita”, intessuta di “qualche pigmento ingraiano” (notoriamente confusionario e incapace di indicare scelte operative chiare)”. Per una sorta di nemesi, sostiene l’autore, “l’approdo di chi proveniva dalla diversità berlingueriana è stata la banale e in fondo vacua, proclamazione della propria normalità”.

La “questione morale” nel giudizio di Marco Follini

Indiscutibilmente la “diversità” berlingueriana si espresse intorno alla “questione morale” che costituisce il lascito politico che ha impresso anche ai postcomunisti un segno caratterizzante, addirittura specificandosi ancor di più nell’ultimo segretario del PCI, Achille Occhetto. Tanto è vero che dell’altra proposta di Berlinguer, cioè quella del “compromesso storico”, del resto senza un esito, nulla è rimasto. Una analisi coraggiosa ed interessante di questo aspetto, nelle sue conseguenze politiche, l’ha svolta Marco Follini, di cultura democristiana e morotea, che ha partecipato ad un interessante “dibattito delle idee” sui “Dilemmi del PCI in mezzo al guado tra Est e Ovest”, ospitato da “La Lettura”. 

Ne riportiamo una lunga citazione: “Non voglio mancare di rispetto a Berlinguer, ma penso che l’insistenza sulla ‘diversità’ comunista sia stato un grave errore e abbia contribuito alla discesa agli inferi della politica italiana. Quando si dice che il confine passa tra onesti e disonesti, descrivendo gli avversari come un esercito di malfattori, si prende una strada lastricata di equivoci e di qualche ingiustizia commessa per vantaggi di parte. Se mettiamo i fatti in sequenza, lungo quella strada s’incontrano la mitizzazione di Mani pulite, che porta al partito di Antonio Di Pietro, l’ondata antipolitica, raccolta con intelligenza tattica da Umberto Bossi e dallo stesso Silvio Berlusconi, infine l’avvento della narrazione populista. Non c’è nulla di inesorabile in questa catena, però tra i diversi anelli c’è una relazione evidente. Il sistema italiano era malato e resta tale. Ma la cura è la competizione democratica, non la delegittimazione degli avversari. Non aver colto questo aspetto si è rivelato un limite importante della strategia di Berlinguer”. “Quando si mettono i partiti sul banco degli imputati - conclude l’ex segretario dell’Udc - con uno stigma di immoralità, si arriva facilmente a una condanna indiscriminata dell’agire politico”.

Il centenario della nascita del partito dei comunisti, in fondo, non può costituire l’occasione di una evocazione storica positiva dei suoi principali protagonisti. Come è stato rilevato, si può adattare anche all’esperienza italiana il titolo del saggio del famoso storico Francois Furet “Il passato di una illusione”. Senza particolari rimpianti.

Pietro Giubilo




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