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14/10/2020
Alle radici della Dottrina Sociale della Chiesa
E’ erroneo ritenere che il pensiero cattolico abbia origine solo nella fase leonina, c’è un lungo percorso che lo prepara sin dalle origini del cristianesimo

Con il pontefice Leone XIII, la Chiesa cattolica apre la fase della Dottrina sociale e sulle questioni del mondo del lavoro, che nel corso dell’Ottocento erano diventate impellenti, anche alla luce della diffusione del pensiero socialista nascente.
E’ erroneo, però, ritenere che il pensiero cattolico abbia origine solo nella fase leonina, oltretutto accusato di essere giunto in ritardo rispetto alle rivendicazioni operaie già in atto da decenni precedenti. Vi è, invece, un lungo percorso, secolare, che lo prepara sin dalle origini del cristianesimo, durante il quale la dignità dell’uomo e il suo posto nella società sono stati rivendicati sia da teologi, sia da laici, giungendo al punto da sfidare anche il potere costituito.
Comunemente, anche come strumento di accusa nei confronti della Chiesa, si giunge a fare apparire che, nella tradizione giudaico-cristiana, il lavoro sia considerato come condanna dell’uomo, da parte di Dio, all’asservimento ad uno stato di fatica e sudore.

A ben vedere, però, è proprio la tradizione giudaica che ci viene in aiuto; Isidor Grunfeld, noto anche con il nome ebraico Yishai ha-Kohen Grunfeld, nei suoi studi afferma: “Il lavoro non è tutto, però. Il lavoro può rendere liberi, ma si può anche essere schiavi di esso. È scritto nel Talmud che quando Dio creò il cielo e la terra, essi continuarono a girare senza posa, fin quando il loro Creatore ordinò: ‘Basta!’.  L'attività creativa di Dio fu seguita dallo Shabbat, allorché deliberatamente Egli cessò la sua opera creatrice. Non è quindi il lavoro, ma la cessazione del lavoro che Dio scelse come segno della Sua libera creazione del mondo. L'Ebreo, cessando il suo lavoro ogni Shabbat, nel modo prescritto dalla Torà, rende testimonianza della potenza creatrice di Dio. L'uomo può, con un atto di fede, porre un limite al suo lavoro sicché esso non degeneri in una fatica senza senso. Così facendo, egli diviene, come affermano i Rabbini, un ‘collaboratore nell'opera della creazione’”.

Tutto ciò allontana di molto la narrazione del lavoro come punizione e dell’uomo condannato a lavorare col sudore della propria fronte. In Genesi 1,26 è riportato quanto segue: “E Dio disse: - Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”. E’ in questo verso che Dio, creando l’uomo a Sua somiglianza, lo rende partecipe e attore della Sua attività creatrice e, per tale motivo lo rende “dominatore”, nel senso etimologico del termine, cioè colui che regge e, quindi si prende cura di ciò che possiede.

Negli stessi Evangeli, Gesù chiama come suoi discepoli uomini che, al momento dell’incontro, sono impegnati nelle rispettive attività lavorative ed Egli stesso è figlio di un lavoratore, ma molti sono i racconti evangelici in cui lo stesso Gesù opera di sabato, compiendo miracoli o procurandosi del cibo insieme ai suoi discepoli, attirandosi le critiche dei pii ebrei.

Proseguendo oltre la figura di Gesù, il tema del lavoro è toccato esplicitamente da san Paolo nella seconda lettera ai Tessalonicesi  (3,10-12): “Quando eravamo da voi, vi  abbiamo sempre imposto questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi! Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono un’esistenza disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità”.

L’ammonizione di Paolo è chiara: si vive del proprio lavoro come impegno quotidiano, tranquillo; attraverso il lavoro si realizza la storia presente e si proietta la comunità verso la storia futura; anche qui, non il lavoro come condanna, ma come condizione nella quale l’uomo opera nella costruzione del proprio stato di Essere libero, questo è il senso della frase paolina “guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità”. Tutti i linguisti concordano che, in senso morale e spirituale, la tranquillità indica lo stato di pace, serenità dell’animo non turbato da timori, o preoccupazioni.

Anche la tradizione Patristica e Apologetica si sviluppa secondo tale direttiva; come esempio si può prendere lo pseudo Dionigi l’Areopagita, sulla cui identità gli studiosi si dividono tra chi sostiene sia  l’Ateniese del I sec. convertito da San Paolo con il famoso discorso all’Areopago di Atene (Atti 17,34), altri ritengono sia Dionigi, vescovo di Parigi del IX sec. d. C.. Secondo Dionigi, impegnato a fare coincidere la filosofia greca, in particolare quella platonica, con la dottrina cristiana, Dio è coincidenza di contrari che in Lui si annullano. La storia parte da Dio per tornare a Dio, quindi anche l’uomo e le sue attività materiali coincidono in questo processo, in quanto tutto è esplicazione della Sua Bontà; se ne deduce che il lavoro non è male, ma esternalizzazione dell’attività creatrice di Dio.

Agostino d’Ippona è molto più esplicito nell’opera De Genesi ad litteram: “L’uomo fu posto nel paradiso per esercitare l’agricoltura non già costretto da un lavoro servile, ma spinto da un godimento spirituale adatto alla sua nobiltà” (Gen. ad litt., 8,9,18); l’uomo, quindi, è posto nell’Eden per prendersene cura (dominarlo, come abbiamo affermato in precedenza), solo quando l’uomo sovverte l’ordine naturale del creato, voler diventare simile a Dio e, diremmo noi oggi “manipolare la natura”, il lavoro diventa un peso.

E’ evidente, qui, l’influsso della filosofia greca relativamente al concetto di “ordine”: già per Pitagora l’origine di tutte le cose è il vòµως (nòmos) che ha significato di numero, ma anche di ordine, legge; anche Parmenide afferma che la Legge gli sia stata affidata dalla dea Dike, che è la dea della Giustizia; è evidente, quindi, il richiamo all’ordine insito nelle cose e la deviazione da esso porta alla fallacia, all’errore. C’è da dire, però, che mentre nei pensatori greci la fallacia è impensabile oppure, secondo Platone, è assenza di conoscenza, in Agostino troviamo l’idea che la storia umana è il luogo dove si svolge la riabilitazione tra Dio e le sue creature che operano nella loro esistenza terrena e che, quindi, possono anche sbagliare, secondo il libero arbitrio.

Anche nel De opere monachorum Agostino invita i monaci a non dedicarsi solo alla preghiera, ma a nobilitare il loro servizio lavorando, così che, vincendo l’ozio, essi possano essere utili a se stessi procurandosi da mangiare e alla gente con la quale possono scambiare i prodotti della terra. Proprio partendo dallo scritto e dal consiglio agostiniano, che si rende necessario considerare il contributo pratico che il monachesimo diede all’ideale del lavoro come pratica sacrale delle attività umane.

E’ noto che i monaci erano autosufficienti in quanto, all’interno dei loro monasteri, lavoravano il terreno e realizzavano opere di irrigazione per i campi. In pieno Medioevo, i monasteri divennero punto di riferimento per i contadini che appresero dai religiosi sia il sistema di irrigazione, sia delle opere di bonifica, delle ruote idrauliche, ma anche della produzione dei panni di lana. Pertanto, la regola benedettina, “ora et labora”, coinvolgeva anche la popolazione che, lentamente, si stanziava attorno agli stessi monasteri. Il lavoro, infatti, non solo nei monasteri, ma anche nei centri abitati, andava ad assumere la connotazione di solidarismo e, quindi, la funzione di elevazione e di redenzione pari alla preghiera. In seguito alle numerose donazioni “pro anima” le abbazie e i monasteri accumularono immensi spazi entro i quali si espanse una grande economia, detta curtense, nella quale la “pars massaricia” era data in concessione ai contadini perché la lavorassero, mentre la “pars Dominica” rimaneva in possesso del Dominus e per lui lavorata dagli stessi contadini; ma in questo caso il Dominus non era il signore laico, ma il Signore della religione. E’ per questo che la vita sociale, lavorativa e familiare era determinata dalle stesse norme che vigevano nelle comunità religiose; ecco nascere, dunque, il primo incontro concreto tra il mondo laico e quello religioso e, in tale incontro, la Regola diventa punto di riferimento della comunità laica, insegnamento, quindi “Doctrina”.

E’ da notare, inoltre e in maniera specifica, che il sistema feudale carolingio, dunque politico, si evolve come sistema amministrativo, riproponendo e ricalcando il sistema delle Diocesi cattoliche assumendone tutte le forme, fondamentalmente quelle sopra descritte, dati i rapporti tra papato e impero.

La “Doctrina”, come sistema di conoscenze e di studio, teologico e filosofico, trova il suo fondamento nell’insegnamento e nelle opere di Alberto di Colonia e Tommaso d’Aquino. In particolare l’aquinate afferma che il fine etico dell’uomo è contemplare Dio, la cui immagine è impressa nel prossimo che è, essenzialmente, animale sociale e politico, pertanto lo Stato è una Istituzione necessaria. Nell’opuscoletto del 1267, “Governo dei prìncipi”, egli afferma che per natura gli altri animali sono provvisti di artigli per procurarsi il cibo e peli per coprirsi: “All’uomo, invece, in luogo di tutto ciò è data la ragione; per mezzo di questa e con l’aiuto delle mani può procurarsi tutte queste cose, che un uomo da solo non potrebbe ottenere (…). Dunque è naturale che l’uomo viva in società con molti altri (…) in modo che uno sia aiutato dall’altro e le diverse persone impegnino la loro ragione in ricerche diversificate, ad esempio uno nella medicina, uno nell’uno, uno nell’altro”. La diversificazione del lavoro e delle attività umane appartengono alla natura stessa del Creato, ma per evitare la dispersione o la conflittualità si rende necessario un ordine e, tale ordine, può essere garantito soltanto dallo Stato, il cui sovrano sia scelto dai cittadini e affiancato, nel suo governo, da uomini virtuosi.

E’ su tali discussioni, portate avanti anche da altri filosofi e teologi, che si innesca tutta una discussione, che ebbe inizio con l’umanesimo sul ruolo dell’uomo nell’universo (homo faber fortunae suae), e si trascinò fino a coinvolgere i rapporti tra Stato e Chiesa, e anche i conflitti che ne scaturirono (si pensi solo allo scontro tra il Papa Gregorio VII e l’Imperatore Enrico IV). Lo scisma protestante, la filosofia politica di Machiavelli, la dottrina giusnaturalistica, tra il Cinquecento e il Seicento, impegnò filosofi e teologi in un’ampia discussione che portò alla nascita della “Seconda Scolastica”. Lutero, nel rinnegare il libero arbitrio, non concedeva all’uomo la possibilità, intrinseca nell’intelletto umano, di giungere a conoscere la verità, essendo attratto e vinto dal vizio, non è capace, esso stesso, di costruire una società civile uniformata alle leggi della natura conosciute solo da Dio; Machiavelli, pur non lottando contro la morale, la disgiunge dall’agire politico del Principe, come se nell’azione di governo la morale non esistesse; i giusnaturalisti, come Bacone e Locke, discutono sull’origine dello Stato e delle leggi a partire da un ipotetico stato di natura che porta l’uomo a costituirsi in società; Bacone disegna uno Stato monarchico assoluto nel quale il Sovrano è posto al di sopra delle leggi e della morale, Locke prospetta una monarchia parlamentare che legifera anche su questioni morali ed ecclesiastiche. 

A tali concetti si contrappongono studiosi cattolici come Domingo Bañez, Roberto Bellarmino, Pedro de Ribadeneyra e Antonio Possevino i quali, riprendendo i testi di san Tommaso, in particolare il già citato “De regimine prìncipum” (lib. I, cap. 15) affermano che “la Società civile o politica è come una nave, la cui navigazione ha due aspetti: solcare il mare e portare i passeggeri in porto. Ossia la politica e il bene comune o sociale hanno un duplice compito: immanente (navigare) e trascendente (giungere al Cielo)”. La “Civiltà cristiana” ha come fine immediato il benessere comune, temporale e sociale, dei cittadini, ma il suo Fine ultimo è il Sommo Bene (De regimine principum, lib. I, cap. 16). La politica rappresenta il fine intermedio, perciò va coltivata, ma non bisogna fermarsi ad essa (S. Th., II-II, q. 58, a. 5).

A tali questioni teoretiche si aggiungono altri fattori, squisitamente politici, militari ed economici, dovuti alle fasi delle conquiste delle nuove terre scoperte da parte degli europei. Contro le devastazioni e i comportamenti immorali dei conquistatori si scaglia Antonio Michele Ghislieri, che fu eletto Papa il 7 gennaio 1566 col nome di Pio V; Il 30 agosto 1567 Pio V pubblicò la bolla Romani pontificis, con la quale vietò ai colonizzatori europei residenti nelle "Indie orientali ed occidentali" di praticare la poligamia, la bigamia e ogni tipo di maltrattamento e sfruttamento nei confronti dei nativi. In Pio V si ritrova anche una iniziale visione ecologista con la pubblicazione, il 1º novembre 1566, della costituzione apostolica De salute, con la quale proibì ogni tipo di accanimento e maltrattamento sugli animali, in particolar modo condannò la pratica della tauromachia in quei tempi ancora in auge.

La rivoluzione industriale, avviata intorno alla seconda metà del 1700 e la nascita delle prime idee del socialismo, successivamente detto utopistico, pone la Chiesa di fronte nella necessità di affrontare ufficialmente tutta una serie di questioni sociali, prima fra tutte quella dell’usura.

Con la fine del Medioevo, la già citata scoperta di nuove terre e, quindi, di nuove rotte commerciali si ebbe un ulteriore grande sviluppo dei commerci, sia interni che esterni, che favorì il lento avvento dell’economia borghese e capitalista; poiché il nascente capitalismo necessitava della circolazione monetaria, divenne inevitabile il ricorso al prestito, cui provvedevano i banchieri e gli uomini d’affari che su di esso imponevano alte forme di interesse e di guadagno. In un primo momento le istituzioni ecclesiastiche risposero con la creazioni di banchi dei pegni, monti di pietà, e altre formule indirizzate a dare aiuto ai bisognosi e permettere l’accesso al prestito a coloro che avevano bisogno di liquidità. E’ proprio con la lotta all’usura che la Chiesa si avvicina alla questione sociale e il problema assunse connotazioni così pressanti al punto che il Pontefice Benedetto XIV, nel 1745, intervenne con la prima Bolla papale che ebbe un carattere sociale, la “Vix pervenit”, con la quale il Papa condanna l’usura. Mentre in precedenza il prestito ad interesse era totalmente condannato dalla Chiesa, il Pontefice, nell’esaminare le varie forme di usura in oggetto, al punto 9 dell’Enciclica afferma una novità: “In terzo luogo, coloro che vogliono restare immuni ed esenti da ogni sospetto di usura, e tuttavia vogliono dare il loro denaro ad altri in modo da trarne solo un guadagno legittimo, devono essere invitati a spiegare prima il contratto da stipulare, a chiarire le condizioni che vi sono poste e l’interesse che si pretende da quel denaro. Tali spiegazioni contribuiscono decisamente non solo a scongiurare ansie e scrupoli di coscienza, ma anche a ratificare il contratto nel foro esterno; inoltre chiudono l’adito alle dispute che spesso occorre affrontare perché si possa capire se il danaro che sembra prestato ad altri in modo lecito, contenga in realtà un’usura mascherata”.

Benedetto XIV, inoltre, interviene nell’economia dello Stato pontificio fino a giungere ad abbassare le tasse e ad intessere rapporti più equilibrati in politica interna ed estera. Si evince una nuova visione della realtà sociale, un nuovo approccio ai bisogni dei fedeli, pertanto si può affermare che da qui nasce la Dottrina Sociale della Chiesa, in quanto nell’enciclica papale è posta in essere la necessità esplicita di difendere la dignità dell’uomo sotto ogni aspetto.
Sulla strada tracciata da Benedetto XIV si sviluppa tutta la discussione che coinvolgerà il mondo cattolico nel 1800.

Sacerdoti e teologi si adoperarono in interventi contro l’imperante capitalismo e indirizzarono il loro pensiero verso l’uomo concreto, l’uomo inserito nelle dinamiche economiche, commerciali e sociali; affrontano i problemi riguardanti i diritti dei lavoratori e i doveri dei proprietari. A tale proposito, si possono citare due teologi, l’italiano Antonio Rosmini e il tedesco Wilhelm Emmanuel von Ketteler.

Rosmini, sacerdote, teologo e filosofo, si interessò anche di politica, manifestando la sua preferenza per lo  Stato liberale, il costituzionalismo  e la separazione tra Stato e Chiesa, anche se non in senso assoluto; nell’opera “La Costituzione secondo la giustizia sociale”, pubblicato a Milano nel 1848, apprendendo l’intenzione di Papa Pio IX di emanare una Costituzione nello Stato pontificio, egli abbozza una serie di interventi sociali; considerando quelli che sono principi di natura e di ragione, li concilia con i diritti di libertà e proprietà, coniugandoli con la giustizia, per salvaguardare al meglio la persona.

Ketteler,  dal 1850 vescovo di Magonza, animò il movimento cristiano-sociale in Germania e nei suoi scritti si scagliò contro lo sfruttamento degli operai da parte del potere capitalista; indetto il Congresso cattolico di Düsseldorf e la Conferenza di Fulda incita tutti i vescovi  ad affrontare con coraggio i concreti problemi sociali a favore dei lavoratori.

Solo tenendo presenti questi percorsi, si comprende che l’intervento della Chiesa nelle questioni sociali non è affatto tardivo rispetto al pensiero marxista della prassi e del materialismo storico, mentre si può contestare a Marx la sua proposizione dell’idea, espressa in alcune sue opere, che la religione si sia interessata della questione operaia solo con pii inviti alla pace sociale. L’opera indefessa di riflessioni, pubblicazioni, creazione di cooperative di mutuo soccorso, realizzazione di scuole che raggiungevano anche le parti più nascoste delle campagne (si pensi al solo San Giovanni Bosco) giunse a porre sul terreno concreto i problemi della giustizia sociale, delle condizioni del lavoratore, del giusto salario, dei contadini, dello sfruttamento delle donne e dei bambini nell’industria, quindi, della questione  sociale che trovano stupenda sintesi nell’Enciclica Rerum Novarum di Leone XIII e che aprì la strada alla nascita della Dottrina Sociale della Chiesa.

Alberto Fico




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