PRIMO PIANO
20/03/2019
Made in Italy?
La crisi economica, spesso il rifugio di tutti, ha permesso di perpetrare scorrettezze in economia.

Pensate per un attimo, nell’Italia di oggi, cosa significhi perdere il lavoro, parliamo di sconforto, si proprio così, perché perdere il lavoro significa vergogna e umiliazione, preoccupazione e molta paura. Sto descrivendo il tempo attuale.

Vedete, fin dalla Rivoluzione Industriale, i disoccupati erano osservati molto male, additati come dei “poco di buono”, come dei delinquenti, come delle persone senza iniziativa. Già in quei tempi non si considerava la possibilità che fossero il sistema economico e la povertà i veri problemi cui mettere mano.

Oggi, in apparenza, sono migliorate le condizioni di lavoro. Non si lavora più dodici ore al giorno per tutta la settimana per un tozzo di pane. Le lotte per i diritti individuali e collettivi hanno ottenuto grandi risultati, quando il sindacalismo era davvero dalla parte dei lavoratori e non della politica. L’attenzione si è spostata sull’economia globale, sulle masse e sui distretti industriali. Se i diritti hanno migliorato, in apparenza, tipo la giornata di lavoro, quello che invece è rimasto invariato, secondo me per certi versi è peggiorato, è la percezione del lavoratore: un numero, non un “uomo”.

La crisi economica, spesso il rifugio di tutti, ha permesso di perpetrare scorrettezze in economia, il lavoratore diventa disoccupato più facilmente di un secolo fa. Oltre alla cattiva considerazione di cento anni fa, adesso c’è anche il dileggio, c’è la derisione, c’è il sarcasmo. La vergogna ricopre le persone escluse dal mondo del lavoro, come se fosse una loro scelta libera e consapevole. Oppure si cade nell’indifferenza.

Vogliamo poi parlare dei giovani? Essi hanno serie difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro, i quasi anziani, incece, vicini alla pensione o i poco più giovani di loro rischiano di uscirci in un momento delicato della loro esistenza. Chi li assumerà per due o cinque anni di lavoro prima della pensione? Essi sono i famosissimi “esodati”, nome nuovo per una condizione subdola al limite della disperazione.

Però tutti i capitani d’industria, gli imprenditori, i dirigenti hanno trovato vie laterali per trarre vantaggio dalla crisi economica. Hanno usato la disoccupazione come leva per risollevare l’azienda senza la fatica di farla evolvere positivamente, facendo strame anche della sicurezza nei luoghi di lavoro. Hanno usato la cassa integrazione per ottenere vantaggi straordinari, ma senza confermare poi la forza lavoro. Si è consolidato il contrario della buona cultura del lavoro: “si salvi chi può” è stata la formula degli imprenditori di fronte alla difficoltà.

Ma non solo, gli imprenditori hanno fatto di più: parliamo per un attimo del comparto della moda del lusso in Italia il quale fattura circa 90 miliardi di euro all’anno. Ebbene queste griffe, che non voglio citare, occupano nel nostro Paese pochissimi dipendenti; infatti la presenza di artigiani, maestranze e operai specializzati, in queste aziende, è insignificante e spesso, pari a zero. Perché?? Perché la filiera delle produzioni è fatta per la maggior parte all’estero e di frequente ai limiti dell’illegalità e non è tracciabile. Pensate i nostri imprenditori che danno stanno causando al nostro Paese: delocalizzare all’estero un settore basato sull’artigianalità del “Made in Italy” e sul valore aggiunto di prodotti legati alla tradizione italiana produce danni incalcolabili. E così i nostri stilisti se ne vanno in giro per l’Est Europa delocalizzando in Bulgaria, Romania, Armenia, Transistria e così via, talvolta utilizzando anche le mafie del posto.

Ma chi paga l’inettitudine e le scorrettezze dei capi e spesso anche della politica e dei sindacati? Semplice sono i lavoratori. Un concetto ovvio e banale, ma talmente tanto banale che si è ricoperto di indifferenza e minimizzato. A chi interessa la disoccupazione? Solo agli statistici e a chi ci finisce dentro, sperimentando l’umiliazione, la vergogna, la paura di non farcela, il senso di colpa.

La disoccupazione è il principale nemico della dignità di un uomo.

Purtroppo non c’è contezza di quanti disoccupati siano finiti nelle sale d’aspetto della Caritas o di altre organizzazioni d’assistenza agli indigenti, ma credo che siano molti. Le storie di queste persone talvolta vengono alla luce solo grazie alle interviste che qualcuno rilascia. Purtroppo queste situazioni non ricevono alcuna attenzione.

Ebbene si, se ci pensate bene, per loro non si fa nulla o quasi. C’è l’indifferenza e quando va peggio c’è lo scherno, la beffa, ed infine la povertà non solo economica. La disoccupazione quindi diventa la colpa di chi è stato licenziato “per motivi economici”, suo malgrado.

L’esodo di italiani all’estero negli ultimi anni ci aveva abituato a due categorie: i giovani, da sempre coinvolti in fenomeni migratori, e gli anziani, alla ricerca di luoghi con un costo della vita più a misura delle loro pensioni. Ma l’onda lunga della crisi ha portato a riva altri tipi di emigranti. Li ha fotografati, nel suo ultimo rapporto “Italiani nel Mondo”, la fondazione Migrantes.

Abbandonando ogni sogno di rimpatrio sempre più italiani si trasferiscono all’estero portandosi dietro l’intera famiglia, bambini compresi. Il fenomeno è in netta crescita. Le iscrizioni di minorenni all’Aire, il registro degli italiani residenti all’estero, sono cresciute tra il 2016 e il 2017 del 16% passando da 22.384 a 25.948. Una famiglia su cinque ha bambini e il 12,9% ne ha di età inferiore ai 10 anni. Non solo. L’estero viene scelto sempre più spesso come luogo in cui far nascere. Ormai più di un iscritto su tre all’Aire è rappresentato da bambini nati fuori dall’Italia. Nel 2017 erano quasi due milioni.

La seconda nuova categoria individuata dal rapporto è quella dei disoccupati disperati. Usciti dal ciclo produttivo a causa della crisi economica, ma ancora in età lavorativa, queste persone non riescono a ricollocarsi in Italia e dunque preferiscono andarsene. Sui 124.076 italiani espatriati nel 2016 quasi uno su dieci (il 9,7% per l’esattezza) è rappresentato da 50-64enni. Sono aumentati del 4,6% rispetto all’anno precedente, ma è un trend che va avanti da anni. Lo certificano anche i dati dell’Istat sulle cancellazioni all’anagrafe: tra il 2008 e il 2015 la fascia d’età compresa tra i 40 e i 64 anni è aumentata del 160% passando da 9.813 a 25.553.

Famiglie con bambini e disoccupati senza speranza vanno ad affiancarsi ad altre categorie storiche che hanno continuato a crescere facendo raggiungere, agli italiani nel mondo, la cifra record di quasi cinque milioni di persone. 

I sindaci possono fare molto per i disoccupati delle loro città. Il lavoro aiuta la comunità che aiuta il lavoro. È indispensabile sostenere le persone che, a causa della crisi o per altre ragioni, hanno perso il lavoro. Un’emergenza, quella del lavoro, quindi è necessario coinvolgere istituzioni, attori sociali e cittadini privati affinché tutti siano realmente partecipi alla soluzione del problema.

Si prenda ad esempio il comune di Vimercate che ha creato il “Fondo Solidale per il Lavoro”. Il fondo, che raccoglie l’eredità del Fondo Città Solidale, ha come missione quella di dare un aiuto concreto ai disoccupati, che non sia solo economico, bensì un sostegno verso il reinserimento nel mondo del lavoro, con occhio di riguardo nei confronti di persone con maggiori problematiche, come quelle che non hanno particolari professionalità o non sono più giovani.

A questo scopo, tutte le aziende e le realtà territoriali sono state e verranno coinvolte affinché diano la possibilità di svolgere al loro interno dei tirocini, finanziati con i soldi raccolti dal fondo. In questo comune della Brianza dal mese in cui ha preso avvio il progetto, sono stati avviati ben 18 tironcini, 16 dei quali svolti da individui con più di 40 anni, impiegati in diverse realtà territoriali: per citarne alcuni, l’ufficio Lavori Pubblici del Comune, la Farmacia comunale, alcune cooperative e diverse aziende del territorio. Tutti stanno svolgendo il loro praticantato, che gli dà diritto a un compenso mensile di 450 Euro, cifra con cui si spera di aiutarli a reinserirsi nel mondo lavorativo.

Oltre ad accedere al Fondo come disoccupati, si può farlo come contribuenti. Tutti, infatti, possono donare una quota, anche una piccolissima cifra sarebbe sufficiente: se tutti i cittadini donassero 1 solo euro, per esempio, si raggiungerebbe cifre con cui potrebbero essere sostenute altre borse lavoro.

Inoltre, tutte le aziende, possono mettersi a disposizione per dare possibilità ai lavoratori. Insomma, un esempio di collaborazione tra pubblico e privato e a 360° della comunità per affrontare una grossa emergenza sociale. Partecipando in una delle vesti sopra citate o semplicemente con il passa parola si ottiene del bene individuale, ma anche collettivo.

I sindaci però devono anche alzare la voce verso le aziende che licenziano solo per aumentare i propri profitti. Tutti a casa, e non mi riferisco allo splendido film di Luigi Comencini che prende le mosse dall'armistizio dell'otto settembre del '43, no spesso questa è la sorte che tocca a molti dipendenti di aziende. La preoccupazione per le vite e i destini delle persone coinvolte e per le loro famiglie, in questo paese sembra diventata ormai solo una nostalgica romanticheria di un tempo andato. Lo vediamo tutti i giorni. Quindi i sindaci devono consorziarsi ed alzare la voce, solo così forse si potranno ottenere risultati e le aziende potranno essere contrastate.

Luca Cappelli

 

 

 




Via Luigi Luzzatti 13/a - 00185 ROMA - Tel +39-06-7005110 - Fax +39-06-77260847 - [email protected]
2012 developed by digitalset digitalSet