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23/03/2017
Non si vive di soli incentivi e di stimoli alla domanda aggregata
E’ necessario riformare l’intero impianto giuridico che deve essere raccordato con il funzionamento di un’economia moderna e delle imprese a vantaggio dell’efficienza
Una cosa va chiarita subito a scanso di equivoci. Gli insuccessi del Job Act, acclarati dalle impietose statistiche delle quali ci siamo più volte occupati, non sono dipesi solo da come sono state scritte le norme che attualmente regolano il funzionamento del mercato del  lavoro o dall’utilizzo degli incentivi per l’accensione di nuovi contratti di lavoro. In buona parte, infatti, sono stati determinati da una domanda aggregata insufficiente a generare nuova occupazione e dalla qualità delle imprese che costituiscono l’ossatura del nostro sistema produttivo. Tante piccole imprese che non sono state in grado di cogliere gli effetti positivi in termini di innovazione e di produttività offerti dalle nuove tecnologie e dai nuovi mercati di sbocco internazionali. Il nostro sistema produttivo, insomma, ha pagato a caro prezzo gli effetti della ‘grande recessione’ a causa della scarsa reattività delle sue imprese e della ipertrofia fiscale e normativa che ne condiziona l’operato. Nel culmine della crisi, infatti, la produzione complessiva è diminuita di quasi un decimo ed il settore manifatturiero ha perso un sesto della sua capacità produttiva. Sul fronte occupazionale si è registrata la perdita di quasi un milione di posti di lavoro. Un intreccio scellerato tra fattori di domanda e di offerta che ha ridotto il tasso di crescita potenziale della nostra economia. La domanda aggregata, com’è noto, è data dalla somma dei consumi, degli investimenti, della spesa pubblica e delle esportazioni. Nel nostro paese la sua ‘insufficienza” è dipesa dai seguenti quattro fattori: i) i consumi languono malgrado i bonus distribuiti per le basse retribuzioni e l’incertezza sul futuro; ii) gli investimenti privati vengono scoraggiati dalla elevata tassazione e dalle basse aspettative di profitto delle imprese; iii) gli investimenti pubblici, in mano al Governo, sono compressi da una spesa pubblica elevata che riduce gli spazi di manovra per un loro aumento atto a stimolare l’economia; iv) le esportazioni sono tarpate da una produttività prossima allo zero che non consente recuperi di competitività. Ne deriva che l’occupazione ‘sic stantibus rebus’ non è destinata a crescere, con o senza Jobs Act. Il nostro paese ha quasi 3 milioni di disoccupati, il 12% in termini percentuali, con un tasso di occupazione pari al 57% visto che sono circa ventitre milioni di persone che lavorano, e questi dati sono rimasti stabili a partire dalla grande recessione acuitasi nel 2012.
Mentre nell’Unione Europea il tasso di disoccupazione medio è pari all’8,5% e il tasso di occupazione intorno al 70%. Per quanto riguarda i fattori di offerta un indicatore che aiuta a capire il declino del sistema Italia è l’andamento della ‘labour income share’. Considerando la quota percentuale di Pil che va al fattore lavoro, calcolata dai ricercatori del OCSE, in Germania, Francia ed Italia ci si può fare un’idea degli obiettivi che cercano di conseguire i tre diversi sistemi di relazioni industriali e delle ricadute che si hanno sul mercato del lavoro e sul sistema produttivo. Guardando l’andamento negli anni della quota pertanto si vede che quella francese è pressoché costante, quella tedesca è declinante mentre quella italiana è in caduta libera. Cerchiamo di capire. I sindacati d’oltralpe avendo come obiettivo le rivendicazioni salariali, spinte a volte al limite del muro contro muro, fanno si che la variabile che si muove durante il ciclo economico è l’occupazione. In altre parole durante le fasi di recessione aumentano sia la disoccupazione ciclica che quella strutturale mentre i salari non si muovono. I tedeschi, invece, preferendo un sistema di cogestione hanno come obiettivo la stabilità dell’occupazione e pertanto durante il ciclo economico si aggiusta il salario che risulta molto flessibile e questo ha provocato una diminuzione della quota. Nel belpaese, dove siamo sempre a vantarci del nostro sistema, la quota che va al fattore lavoro è in continua diminuzione visto che si riducono sia l’occupazione che i salari. Un curiosum che dovrebbe far riflettere sui provvedimenti legislativi che hanno riformato il mercato del lavoro italiano nell’ultimo decennio e sulle strategie messe in campo dagli attori sociali. Non dimenticando che i posti di lavoro si generano facendo nascere nuovi imprenditori ed incentivando i sopravvissuti alla grande recessione a far crescere la dimensione delle loro imprese che in media hanno 9 addetti. Il governo potrebbe fare la sua parte contribuendo ad alleggerire il peso fiscale e normativo che chi decide di mettere su un attività produttiva è chiamato a fronteggiare. E’ necessario insomma riformare l’intero impianto giuridico che deve essere raccordato con il funzionamento di un’economia moderna e delle imprese a vantaggio dell’efficienza. Qualche passo avanti è stato fatto in questi ultimi anni ma risulta ancora insufficiente.

Marco Boleo



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