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27/09/2016
L'economia sociale di mercato come modello per l’Unione Europea
Necessaria una politica riformista che contribuisca a rendere più democratici i processi decisionali delle imprese ed a sviluppare un modello di economia sostenibile in termini sociali ed ambientali

Il modello di economia sociale di mercato, come abbiamo visto anche nei precedenti interventi su questo sito, può essere definito in estrema sintesi come un ordine economico che si basa principalmente sul libero mercato, ma che include elementi per così dire di bilanciamento sociale, vale a dire, i principi di libertà, giustizia e solidarietà. I giudizi su un siffatto assetto economico nella sterminata letteratura accumulatasi negli anni sono in prevalenza positivi. Secondo alcuni studiosi l’economia sociale di mercato mantiene la promessa di "prosperità per tutti", mentre per altri offre la "cura per tutti i mali". Secondo gli idealisti, invece, l'economia sociale di mercato sarà capace di riorganizzare le priorità politiche in modo da: (1) garantire l'accesso permanente alla formazione continua per tutti; (2) creare sistemi di sicurezza sociale sostenibili; (3) affrontare la questione  della tutela della proprietà intellettuale; (4) assicurare ai paesi in via di sviluppo un accesso equo al libero scambio; ed infine (5) dispiegare nuovi strumenti e meccanismi che supportino la responsabilità individuale volontaria delle persone. L'economia sociale di mercato deve essere vista come un ordinamento sprovvisto di privilegi, dove né le élite feudali o di partito, né i gruppi di potere economico come i monopoli, i cartelli o i trust influenzano i mercati e la società. Applicato in linea di principio, questo ordinamento permetterebbe a tutti i membri di una società di ricevere le stesse opportunità di conseguire singolarmente un obiettivo sociale, a prescindere dal censo e dalla “classe” di appartenenza. Ciò si traduce in un maggior welfare per tutti, trasferendo le opportunità di consumo e la distribuzione della ricchezza all'interno della società tramite l'ordine di mercato basato sulle regole. Una socializzazione del progresso economico-sociale e del profitto si manifesta pertanto in un siffatto modello per mezzo dei canali di mobilità e di redistribuzione del reddito attivati nel tempo dalle forze di mercato senza alcun intervento del governo. Attualmente all'interno dell'Unione Europea, secondo Gøsta Esping-Andersen, possono essere identificati  quattro gruppi distinti di sistemi di welfare: i) quello Nordico (Danimarca, Finlandia, Svezia, e Paesi Bassi) è caratterizzato da elevati livelli di spesa per la protezione sociale ( i servizi sociali e sanitari sono principalmente erogati dal settore pubblico e finanziati con la tassazione), una tassazione elevata, una considerevole occupazione nel settore pubblico (oltre il 30% di quella totale), le prestazioni sociali di base per tutti i cittadini (universalismo), politiche attive nel mercato del lavoro, livelli salariali compressi ed una legislazione debole per la tutela dell'occupazione.

I principali problemi legati al modello Nordico sono dovuti alle crescenti difficoltà nel finanziare i “costi” del welfare in condizioni di elevata mobilità dei capitali ed all'elevato bisogno di espandere l'occupazione nel settore privato per compensare il calo o il ristagno delle opportunità di lavoro offerte da quello pubblico; ii) quello Anglosassone (Regno Unito, Irlanda), caratterizzato principalmente dai benefici sociali per i più bisognosi, presenta una cospicua dispersione dei salari ed un settore, relativamente ampio, di impiego a bassa retribuzione. Contrariamente al modello Nordico, quello anglosassone non presenta criticità nel finanziamento del Welfare State e nell’occupazione del settore privato. Tuttavia, vi è una carenza di investimenti destinati ad una forza lavoro altamente competitiva, altamente qualificata, ben addestrata ed orientata al settore dell’esportazione, con il risultato di livelli significativi di povertà e di esclusione sociale; iii) quello Continentale (Germania, Austria, Francia, Belgio, Lussemburgo) è caratterizzato da schemi per la disoccupazione e per il pensionamento principalmente per coloro che hanno partecipato attivamente al mercato del lavoro, da un elevato grado di legislazione per la tutela dell'occupazione e da sindacati influenti. In contrasto con il modello Anglosassone, la povertà e l'occupazione meno qualificata, non si manifestano come patologie economiche gravi. Tuttavia, si manifestano chiari segnali di bassi livelli di occupazione (ossia bassi livelli di partecipazione al mercato del lavoro) sia nel settore pubblico sia in quello privato, elevati livelli di dipendenza dai sussidi ed un elevato tasso di disoccupazione di lunga durata; iv) il modello Mediterraneo (Grecia, Italia, Spagna, Portogallo), quello dei GIPSI, è caratterizzato da una rigida legislazione a tutela dell'occupazione, da livelli salariali fortemente compressi, e dalla consapevolezza che i bisogni sociali ed i rischi sono coperti principalmente dalla famiglia. Questo modello di Welfare State ha creato un divario crescente nel mercato del lavoro, tra gli “insider”: i tutelati e gli “outsider”: quelli con basse tutele. Analogamente al modello Continentale, quello Mediterraneo è finanziato principalmente attraverso la tassazione dei salari, e l'occupazione del settore privato è esclusa dal mercato del lavoro. In termini di povertà, il modello Mediterraneo è simile a quello Anglosassone. Sono presenti nella letteratura economica diversi studi che hanno comparato empiricamente le performance offerte dai quattro modelli nel conseguimento degli obiettivi più importanti delle politiche sociali. Il risultato più eclatante è che i modelli Continentale e Mediterraneo non sono sostenibili per la loro mancata efficienza economica. Visto però che il PIL di questi paesi rappresenta circa i due terzi di quello dell'UE, va da se che questa inefficienza rappresenta un problema per l'Unione Europea nel suo complesso.

Cosa fare allora? Vista la sostenibilità dei modelli Nordico ed Anglosassone qualcuno potrebbe pensare che la soluzione che abbiamo in mente potrebbe essere quella di una loro adozione. Non proprio! La ragione è semplice. Passare ai modelli Nordici o Anglosassone non costituirebbe la “cura” per i costi politici connessi alla loro adozione dovuti alla forte opposizione dei cittadini allo squilibrio sociale che associano ad un'economia di mercato pura. La cura a nostro avviso deve passare nell’adozione del modello dell’Economia Sociale di Mercato viste anche le considerazioni che abbiamo fatto nei precedenti due articoli. Tutto sta nel risolvere la sua equazione trovando un equilibrio tra le risposte alle seguenti tre domande: (a) quanto "sociale" è necessario?; (b) quanto "mercato" è lecito? e (c) quanta regolazione da parte del governo è indispensabile per rendere il sistema di successo? C'è un costante dibattito riguardante la necessità di adeguare l'equazione del modello di economia sociale di mercato. Nell’intero arco dell’intero dibattito che vi abbiamo schematizzato vi sono stati coloro che hanno sostenuto un ruolo del governo più o meno importante, per più mercato o per più regolamentazione ed altri ancora per l'aumento della dimensione sociale da inserire in questa equazione. Sta di fatto che nel contesto globalizzato di oggi, è fondamentale identificare un equilibrio che incoraggi e richieda lo spirito imprenditoriale del mercato e che corregga i suoi fallimenti: la concentrazione del potere nelle mani di pochi. Si ha bisogno per questo di forze compensative, sotto forma di un forte e rinnovato movimento sindacale (che si rivolga anche alle figure deboli del mercato del lavoro), di una società civile diversificata e sana e di partiti politici vigili e lungimiranti, che tengano a freno i possibili abusi e lo sfruttamento delle pratiche capitaliste, garantendo un'equa redistribuzione dei benefici del mercato con appropriati programmi sociali per gli esclusi (gli scarti dell’economia contemporanea). La quadratura tra efficienza ed equità tanto cara al filosofo tedesco Ralf Daherendorf. Risulta necessaria, insomma, una politica riformista che contribuisca a rendere più democratici i processi decisionali delle imprese ed a sviluppare un modello di economia sostenibile in termini sociali ed ambientali. Contribuendo a creare un’economia, parafrasando Papa Francesco, che non uccida e che non produca scarti.

Marco Boleo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




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