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25/09/2016
Terzo Settore, che fine hanno fatto i decreti?
Sono passati oramai quattro mesi, ed il termine di fine anno si avvicina pericolosamente, ma dei decreti ancora non c'รจ traccia.

L'approvazione della legge delega al governo per la “Riforma del Terzo settore”, fu salutata dal Premier, con la sua solita protervia, affermando che "con la legge recentemente passata anche al Senato abbiamo messo il terzo settore in condizione di crescere" Rendendosi conto di averla sparata grossa ha corretto subito il tiro precisando, in un barlume di sincerità, che "Rimane ancora molto da fare. Una volta portati a casa i decreti legislativi, spero nel modo più rapido ed efficiente possibile, questa legge produrrà i suoi effetti per i prossimi 20 anni, quelli durante i quali cambierà radicalmente il nostro modo di vivere, cambiamenti che saranno più importanti di quelli che abbiamo registrato nei 20 anni con l’avvento di Internet». Subito dopo l'approvazione della legge il Sottosegretario Luigi Bobba dichiarò che era intenzione del governo mettere subito in cantiere «due, possibilmente tre decreti da approvare entro l’anno, a cui in un secondo momento affiancare un “decretone”, col quale prenderà forma il Codice del Terzo settore». Sono passati oramai quattro mesi, ed il termine di fine anno si avvicina pericolosamente, ma dei decreti ancora non c'è traccia. Rispettare i tempi sarà difficile vista che la procedura per la loro emanazione non è particolarmente snella. Ogni decreto legislativo dovrà passare al vaglio della Presidenza del Consiglio, del ministero del Tesoro ed eventualmente degli altri dicasteri interessati. A questo punto dopo il via libera del consiglio dei ministri i testi passano all’esame della commissioni parlamentari (la Affari sociali per la Camera e la Affari costituzionali per il Senato) che esprimono un parere non vincolante. Pareri che verranno valutati dal ministero del Lavoro prima che il Consiglio dei ministri li licenzi in via definitiva. Ad oggi il Governo ha comunicato che i decreti in lavorazione sono tre e precisamente il decreto sull'impresa sociale, il decreto sul servizio civile ed il decreto sulla Fondazione Italia. Si era sperato che i decreti delegati si inserissero in un percorso aperto alla interlocuzione con le associazioni, le cooperative e gli altri interessati. Cosi fino ad ora non è stato e non sono state neanche coinvolte le altre Istituzioni, la Conferenza delle Regioni e l'ANCI. Inoltre non si conoscono nemmeno i testi ufficiali del decreto sull'Impresa sociale e di quello della Fondazione (unico testo presentato è quello sul Servizio Civile che non presentava particolari problemi). Del decreto sulle Reti e sul sostegno alle Associazioni, che è il più urgente se si vuole veramente far decollare il Terzo Settore non si ha notizia.

I maligni affermano che sarà esaminato, insieme al decretone, dopo lo svolgimento del referendum sulla riforma costituzionale. Certo iniziare il lavoro sui decreti attuativi partendo dell'impresa sociale ha un significato ben preciso. Se a ciò si aggiunge la notizia che il decreto sullo statuto per la Fondazione Italia è praticamente pronto (sarà emanato con un Decreto della Presidenza della Repubblica, con un iter  quindi più celere) è chiaro che al centro delle preoccupazioni del governo vi è l'Impresa sociale. Anche la Fondazione, infatti, è vista in questa ottica. Il suo compito, a detta del Governo, sarà quello di incentivare in modo particolare l'impresa sociale. A nulla sono valse le osservazioni del Forum del Terzo Settore che ha lanciato l'allarme sui rischi di questo intervento a gamba tesa, da parte del governo, nei rapporti tra Onlus e finanziatori, e sulla mancanza di garanzia di trasparenza nella gestione della futura fondazione. Ora è da dire che l'istituto dell'impresa sociale non è una invenzione dell'attuale legge delega, ma è stato introdotto nel 2006 con la legge 155. Sono quindi nove anni che è stata emanata la relativa normativa che non ha praticamente sortito alcun effetto. Essendo per di più lasciato volutamente in ombra, nella legge delega, l'argomento relativo alla su natura, non si ha cognizioni delle reali intenzioni governative. Le strade possono essere due. O si va verso una impresa sociale come organizzazione imprenditoriale  che ha per statuto una missione di miglioramento sociale e che per raggiungerla non si basa soltanto su sovvenzioni pubbliche e beneficenza, bensì svolge un'attività commerciale sul mercato. A differenza di un’impresa tradizionale, però, il profitto generato dall’attività commerciale non rappresenta il fine ultimo, ma viene gestito ed utilizzato come mezzo per rendere autosufficiente l’impresa stessa. Per tali considerazioni le imprese sociali potrebbero contribuire a sviluppare in Italia quella che viene comunemente indicata economia sociale. Una risposta agli eccessi del neo liberismo di matrice calvinista che ci ha pervaso negli ultimi 20 anni ed alla cronica scarsità di risorse economiche dello Stato e del non profit per far fronte alle future necessità delle economie occidentali. La gestione di beni di comunità, dei servizi pubblici locali, l’istruzione, la valorizzazione del patrimonio culturale, la green economy, lo sviluppo del secondo welfare, sono tutte grandi aree di bisogno sociale e al contempo nuove sfide di mercato che potranno sfuggire alla speculazione e alla privatizzazione selvaggia se ,e solo se, saranno gestite con un modello alternativo al capitalismo di questi ultimi anni.

L’impresa sociale così concepita si pone quindi come modello alternativo al capitalismo neo-liberista, l’unico modello economico che ci hanno imposto ed i cui eccessi hanno portato alle storture che tutti consociamo. Oppure si prende, in alternativa, la strada anglosassone di una apertura tout court alle società con fini di lucro delle attività fino ad oggi peculiari delle società no profit. Uno scenario completamente differente e di cui abbiamo gli esempi più significativi negli Stati Uniti, dove, ad esempio, il Fund raising è un vero e proprio business. Ampio è stato il dibattito in materia durante l'iter della legge delega, che ha evidenziato nettamente due schieramenti in tal senso. A creare ancora più confusione, e quindi anche più malintesi, il governo ha pensato bene di istituire la figura della "società benefit". Esiste la forte preoccupazione che si generi una sovrapposizione normativa tra "impresa sociale" di cui alla riforma del Terzo settore e la "Benefit Corporation italiana, istituita dalla legge di stabilità 2016. Per quanto riguarda infine il costituendo Consiglio Nazionale per il Terzo Settore, il Governo lascia trapelare i suoi intendimenti soltanto per quanto riguarda la composizione, tralasciando completamente di indicarne la cosa più importante: compiti e funzioni.  Per la sua composizione pensa a quindici membri: cinque nominati dal Ministero, cinque provenienti dalle reti di secondo livello e cinque dalle associazioni nazionali. Rendiamoci conto che il Terzo Settore consta di oltre 300.000 realtà, con circa un milione di addetti e quasi cinque milioni di volontari. Ridurne la voce a poche presenze da contare sul palmo della mano è chiaro indice di una volontà di ridurre gli spazi partecipativi. Per far luce su tutte queste perplessità, ed eventualmente fugarle, il Governo dovrebbe sbrigarsi a far conoscere i testi su cui sta lavorando. Continuare a procedere in assoluta riservatezza creerebbe ulteriori preoccupazioni. Non è certo il Terzo Settore un mondo che ha bisogno di segretezza e riservatezza.

Giancarlo Moretti




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