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25/07/2016
Il coltello di Erdogan e il mutismo dei Paesi “democratici”
Nonostante le rassicurazioni di Ankara, la situazione appare una miccia che può scoppiare improvvisamente nelle mani di un’Europa già fragile

Dopo gli arresti e le epurazioni dei giorni scorsi, la Turchia ha sospeso la convenzione sui diritti umani (il trattato internazionale sottoscritto dai 47 paesi che formano il Consiglio d’Europa), istituendo per i prossimi tre mesi lo stato di emergenza (votato a favore da tre quarti del Parlamento) che, di fatto, investe il governo di poteri speciali ed estesi. Così, al fallimento del golpe - un commando di circa 25 soldati che la sera di venerdì 15 luglio ha cercato con un blitz di catturare il presidente Erdogan, al potere dal 2003 - è seguita una risposta durissima (a caldo, il governo aveva caldeggiato il ripristino della pena di morte). C’era da aspettarselo, eppure oggi sono in tanti a sollevare una nuvola fumosa di dubbi. A iniziare dalla reale paternità del colpo di Stato che, per molti commentatori, è stato - se non esplicitamente organizzato dal presidente - comunque funzionale a una volontà politica di eliminazione degli avversari (il filosofo Carl Schmitt diceva che per fortificare una nazione devi creare un nemico). Nonostante le rassicurazioni di Ankara, la situazione appare una miccia che può scoppiare improvvisamente nelle mani di un’Europa resa già fragile dalla recente Brexit, dal terrorismo, dall’invasione dei migranti e dalla crisi delle banche. E che rischia di non riuscire a tirar fuori la testa dalle onde che si susseguono con così tanta veemenza. Secondo gli osservatori, tra le misure più probabili che il governo turco potrebbe decretare, ci sono la limitazione della libertà di manifestare e di circolare, ma soprattutto quella di espressione. E forse non siamo lontani: le epurazioni, fino ad ora, riguardano già - tra fermi e licenziamenti - 50 mila persone: coinvolti funzionari pubblici, insegnanti, imam, militari, magistrati, poliziotti e giornalisti. Le autorità turche hanno incriminato formalmente 99 dei 260 generali del Paese. Senza contare, poi, che sono stati rimossi dipendenti ministeriali, rettori universitari (il Consiglio per l'alta educazione ha perfino imposto il divieto di espatrio a tutti i docenti universitari), e oltre 35 mila insegnanti, mentre il sindaco di Istanbul (attualizzando l’anatema del re Creonte, protagonista della nota tragedia Antigone), valuta l’ipotesi di creare un “cimitero dei traditori”, negando così anche il diritto alla sepoltura.

Arresti indiscriminati, secondo molti, di persone scomode, che nulla hanno a che fare con il fallito golpe, e misure che schiacciano lo stato di diritto, reprimono la libertà di stampa, cancellano i diritti umani e strizzano l’occhio alla realizzazione di uno stato islamico su cui l’Europa potrebbe nicchiare, considerandolo un antidoto al più pericoloso jihadismo. E pazienza se assassinano e torturano: spesso, la politica è l’opzione del male minore. Quello che quindi si prospetta è una serie di condizioni che renderanno Erdogan ancora più forte contro i suoi oppositori interni - in particolare i curdi - e con le mani ancora più libere nei confronti una politica mediorientale decisamente ambigua. Tuttavia, una situazione di guerra civile non conviene a nessuno, in primis all’Europa, che in questi giorni non è stata in grado di far sentire la propria voce (se non per il richiamo, fatto dall’Alto rappresentante per la Politica estera dell’Ue, l’italiana Federica Mogherini, a non ripristinare la pena di morte): senza un governo forte, la Turchia - paese cuscinetto tra occidente e mondo islamico - si trasformerebbe in una polveriera, col rischio di diventare il corridoio privilegiato dei terroristi che arrivano da Siria e Iraq. Anche se - e questo è ormai evidente - sull’ambiguità di Erdogan non ci sono dubbi: sono molti gli osservatori occidentali che non nascondono di credere che sia stato proprio il governo turco a supportare l’Isis, con l’obiettivo di mettere le mani sulla finanza islamica. Tuttavia, le reazioni sono state caute, se non addirittura tardive (la Francia ha aspettato fino alle 4 di sabato per lanciare un debole appello a «rispettare l’ordine democratico» e anche l’Italia si è espressa con un notevole ritardo). Certo, i pestaggi seguiti alla cattura degli ufficiali dell’esercito hanno imbarazzo l’Occidente (Amnesty International ha dato conto di "estese torture" nei confronti dei militari detenuti in isolamento). Che, però, ha preferito sostenere la democrazia turca (che tuttavia è tale solo di facciata), a parte qualche generico commento a favore del rispetto dei diritti umani e costituzionali. Già alle 23.05 di venerdì, quando ancora ad Ankara la partita era aperta a ogni possibile risultato, la Casa bianca ha dichiarato il suo esplicito appoggio alla democrazia turca, seguita a ruota da Angela Merkel e dal segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg.

Di fatto, Erdogan ha il coltello dalla parte del manico: l’accordo stipulato dalla Turchia con l’Ue sull’immigrazione (la base aerea di Incirlik ha una importanza strategica fondamentale  nella lotta al terrorismo, potendo accogliere il maggior numero di bombe nucleari Usa in Europa, ma da qui partono anche i raid americani e tedeschi anti Califfo) riesce a far chiudere gli occhi sulle torture a cui sono già state sottoposte migliaia di persone accusate di aver preso parte - o di aver in qualche modo sostenuto - il golpe di venerdì scorso (secondo il presidente turco, il vero autore del golpe è Fethullah Gülen, ricco predicatore islamico ed ex imam turco, che da anni vive in esilio volontario in Pennsylvania). Senza contare che appena due settimane fa, al vertice della Nato di Varsavia, l’Alleanza aveva affidato alla Turchia (assieme alla Germania e all’Italia) un ruolo chiave nella confermata presenza in Afghanistan. E la Turchia è anche parte della flotta Nato che pattuglia l’Egeo per intercettare e scoraggiare i trafficanti di persone. Eppure, l’Europa avrebbe almeno due motivi da far valere contro Erdogan: il blocco del processo di adesione all’Ue e, soprattutto, il rinvio della liberalizzazione dei visti europei per i cittadini turchi, una questione spinosa per il governo di Ankara. La comunità internazionale, invece, continua a condannare la linea dura di Erdogan, ma per ora non si parla di misure da adottare nei confronti della Turchia: l’ultima dichiarazione finale approvata all’unanimità dalla riunione dei ministri degli Esteri europei si è semplicemente limitata a condannare il golpe, invitando il presidente al rispetto dei diritti umani e a rinunciare a ripristinare la pena di morte, senza toccare nessun punto potenzialmente critico. Perché, almeno formalmente, le convenienze diplomatiche hanno la loro importanza. Che rischia di mettere a tacere le coscienze dei leader europei.

Stefano Giordano




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