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25/09/2023
I migranti, l’Italia e il destino dell’Africa
Di fronte a questo scenario negativo per la politica europea, l’Italia si trova nella possibilità di giocare un ruolo decisivo.

Le cronache drammatiche di questa estate hanno ricordato ai paesi europei, in gran parte immemori, che il fenomeno dell’immigrazione dall’Africa verso le coste meridionali del Continente non esprime una emergenza momentanea, ma deriva e indica un cambiamento di grandi dimensioni, una rivoluzione demografica, climatica e sociale destinata a incidere profondamente anche in Europa e per la quale occorre una consapevolezza altrettanto rilevante. Questo moto di vaste proporzioni si presenta, in particolare, nelle aree geografiche che si estendono a sud delle grandi zone sviluppate dell’Occidente, cioè in Africa – a partire dalle zone del Sahel - e in Sudamerica - soprattutto dal Messico - nei confronti quindi, rispettivamente, dell’Europa e degli Stati Uniti. Esso appare anche collegato agli effetti di una globalizzazione che nei confronti di tali aree ha prodotto un innalzamento delle diseguaglianze e, nel contempo, una intensificazione dello sfruttamento delle materie prime, in relazione alle esigenze di scambi commerciali e di produzioni che richiedono “terre rare” recuperabili in tali territori, soprattutto per quanto riguarda l’Africa. Con le conseguenti instabilità e conflitti. Tra i pochi consci di tale prospettiva, non v’è dubbio, c’è Papa Francesco che a Marsiglia, all’incontro tra i vescovi e i giovani francesi, non ha esitato a definire il fenomeno immigratorio un “bivio di civiltà”. Il Mediterraneo indicato dal Pontefice come “laboratorio di pace”, “dove realtà diverse si incontrino sulla base dell’umanità … non delle ideologie che contrappongano”, significa un ponte per lo sviluppo dei paesi e dei continenti che vi si affacciano. L’appello di Francesco corrisponde anche ad una corretta esigenza geopolitica. L’evoluzione critica dell’Africa, volutamente ignorata o, quantomeno sottovalutata dai paesi europei, ha condotto a quello che la rivista di geopolitica Limes ha titolato nel suo ultimo quaderno “Africa contro Occidente”, poiché se si suole guardare oltre il fenomeno migratorio ed esaminarne il contesto, si rende evidente che le realtà africane in movimento vedono il progressivo abbandono da parte dell’Occidente europeo delle posizioni africane - il caso ultimo del Niger per la Francia - e l’espansione della presenza cinese, russa e turca, sia attraverso azioni militari e golpiste, che con la penetrazione economica e commerciale.

Emblematico, appunto, il crollo della Francafrique saheliana; proprio del paese, come è stato rilevato da Virgilio Ilari su Domino di settembre “che fornisce all’industria nucleare buona parte dell’uranio” e che ha visto i rivoltosi imporre una “svolta moscovita, intimando all’ambasciatore di Parigi di rientrare in patria”, mentre le popolazioni sventolavano bandiere russe e bruciavano quelle francesi. Questi fatti recenti e i cambiamenti in atto sono aspetti della deoccidentalizzazione del mondo che, nel continente africano, si esprime anche con l’inversione della tendenza che, fino alla seconda guerra mondiale, vedeva i colonialisti europei spinti da una eccedenza demografica, dare l’assalto ad un’Africa “vuota” e che avrebbe assorbito mano d’opera di troppo. Non vi è dubbio che l’Africa abbia rappresentato, anche storicamente, un elemento strategico per l’Europa. Basterebbe ricordare le tesi di un antesignano del disegno unitario dell’Europa, Coudenhove-Kalergi, che, nel suo progetto “Pan-Europa” degli anni ’20 del secolo scorso, descriveva l’assetto unitario dell’Europa centro occidentale con buona parte dell’Africa occidentale. Una sorta di Euro-Africa. Non può essere, quindi, senza prevedibili conseguenze negative, la perdita di un rapporto con le nazioni del continente africano. Non solo in termini di convenienze economiche o di accesso a quelle materie prime importanti per le produzioni tecnologiche o per le energie che alimentano le nostre industrie e l’uso per il benessere delle popolazioni. Verrebbe meno, per l’Europa, anche la sua missione di solidale sviluppo dei popoli, mentre prevarrebbero le logiche di potenza e, di conseguenza, i conflitti, mentre, per la verità, i nuovi protagonisti si presentano con logiche di sfruttamento ancor più pesanti per la crescita civile delle nazioni africane. E il fenomeno migratorio assumerebbe proporzioni ancor più gigantesche. Di fronte a questo scenario negativo per la politica europea, l’Italia, spinta dalla pressione migratoria, si trova nella possibilità di giocare un ruolo decisivo per tentare di contribuire al fine di modificare quello che sembra un inarrestabile declino storico. La necessità di dare un ordine ai flussi migratori che, nell’ultimo anno hanno visto concentrarsi le partenze dalla Tunisia, ha sollecitato il ritorno di Roma in Africa, con il memorandum sottoscritto con Tunisi. In precedenza, insieme agli accordi realizzati attraverso l’ENI con Algeri per ampliare le forniture energetiche, ipotizzando la possibilità per l’Italia di diventare un hub per l’Europa, era stato annunciato un nuovo Piano Mattei, nel nome cioè di un personaggio che, ancora oggi, dopo oltre 60 anni, viene considerato nel nord Africa un concreto sostenitore dello sviluppo e del suo processo di indipendenza. Per la prima volta, a parte l’accordo con Erdogan per gli immigrati dalla Siria, l’Europa è scesa in campo non solo per venire incontro all’esigenza di regolamentare le partenze e controllare l’attività degli scafisti, ma anche per aiutare un Paese africano a superare una fase di pesanti difficoltà economiche. Nel contempo, l’Italia ha inteso muoversi in Africa, in tutte e due le circostanze, seguendo una logica europea e non nazionalistica.

La presenza della presidente della commissione Ursula von del Leyen a fianco del premier italiano Giorgia Meloni e la firma del memorandum sono atti significativi e possono essere l’inizio di un nuovo corso dei rapporti euromediterranei. La chiave di questa politica estera dell’Italia sembra riprendere il senso delle iniziative di Enrico Mattei. A questo proposito Lapo Pistelli ha voluto ricordare, a luglio di quest’anno, su Aspenia, l’importante ruolo dell’azienda fondata dal manager italiano nel campo degli idrocarburi, ma anche quello nell’educazione agricola, nella sanità, nella formazione del capitale umano, interventi sviluppati su un arco temporale lungo di generazioni. Soprattutto il direttore di Public Affairs di Eni ha sottolineato la “straordinaria lezione di metodo” che caratterizzò l’azione di Mattei: “Privilegiare la creazione di valore a lungo termine, rispetto al profitto di breve durata, offrire accordi di co-sviluppo e partnership rispetto al tradizionale pagamento di royalties in cambio della mano libera sulle risorse del paese ospitante”; aggiungendo: così “fu in grado di cogliere le aspirazioni di leadership di paesi che cercavano un rapporto paritario e non coloniale, che proprio una azienda italiana, figlia di un paese sconfitto e in cerca di riscatto, poteva offrire meglio di altri”. Queste iniziative dell’Italia sono un segnale importante perché il contenimento dei caotici flussi immigratori e l’obbiettivo di aiutare le popolazioni a restare nelle loro terre, non sono possibili senza un cambio di paradigma delle relazioni con l’Africa e richiedono la collaborazione per lo sviluppo e non lo sfruttamento neocoloniale o la reminiscenza di antiche politiche imperialiste. Non solo, ma occorre anche un mutamento della valutazione che l’Europa ha del continente africano. Federico Rampini nel suo ultimo libro (“La speranza africana”) invita a esaminare i segnali di un cambiamento che percorre il continente africano che partono dalla stessa considerazione “degli africani su se stessi”. Un nuovo approccio dell’Europa richiede non solo il superamento degli schemi passati e di non “considerare l’Africa solo in vista dei propri scopi”. E’ questa un’altra sfida che attende l’Europa.

Pietro Giubilo




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