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08/09/2023
Le manovre economiche che portano in un vicolo cieco
Continuare a drenare risorse dal settore produttivo per convogliarle a quello non produttivo, tagliando gli investimenti, ‘blocca’ la crescita.

Mentre la manovra economica è in gestazione e con la premier Meloni che ha già messo le mani avanti ricordando che le risorse a disposizione del Governo sono scarse e soggette ad usi alternativi, e che pertanto le promesse elettorali dovranno attendere, proviamo a fare un’analisi che vada al di là dei numeri che circolano. Ma prima di farlo vanno fissati dei paletti o se volete vanno chiarite degli aspetti di politica economica e di contabilità nazionale dai quali non si può prescindere. Qualsiasi sistema economico sulla faccia della terra ha una tendenza di lungo periodo determinata dalla crescita della popolazione e della produttività totale dei fattori. È la capacità produttiva, ovvero il tasso di crescita di lungo periodo quando tutti i fattori (capitale e lavoro) sono pienamente utilizzati. Intorno a questo livello o Pil di pieno impiego il sistema economico oscilla: è la cosiddetta posizione ciclica o Pil determinato dalla domanda aggregata (consumi + investimenti + esportazioni nette). In questo caso appropriate politiche espansive colmano il vuoto di Pil aumentando l’utilizzo dei fattori. L’Italia però ha un basso tasso di crescita della produttività ed una demografia sfavorevole (popolazione in calo) e quindi ha un vuoto d’offerta che non è colmabile attuando politiche di domanda aggregata. Il bilancio dello stato, il cui impatto sull’economia viene ‘corretto’ dalla manovra, non è tanto e semplicemente limitato dal deficit di bilancio corrente (schiavo dei parametri fiscali che verranno reintrodotti) ma dal livello della spesa totale e di quello delle entrate totali che immettono e sottraggono reddito a famiglie e imprese. In altre parole il disavanzo di bilancio che assommerà ad una certa cifra va messo in relazione con la composizione della spesa pubblica e delle entrate fiscali. La spesa nel Belpaese per il 98% è corrente e per il restante 2% è destinata agli investimenti. Mentre dal lato delle entrate il 95% sono imposte su famiglie, lavoratori, pensionati e imprese e per il restante 5% gravano su altri redditi. Questa struttura di bilancio pubblico è fortemente restrittiva, nonostante (o a causa di) l’esorbitante livello di spesa, a prescindere dal deficit di bilancio corrente (impostato dalla manovra) che sarebbe semplicemente una piccola pressione sull’acceleratore del sistema economico italiano che però ha il freno di stazionamento tirato.

Solo la ricomposizione delle entrate fiscali e della spesa pubblica, possibilmente diminuita nel livello, renderebbe il bilancio pubblico dell’Italia espansivo, cioè orientato alla crescita strutturale del Pil: a prescindere dal disavanzo corrente. Continuare a fare manovre: non modificando lo status quo è perfettamente inutile. Tutti sono a favore della diminuzione della pressione fiscale (se ne discute da trent’anni), e votano gli schieramenti che la mettono nel programma elettorale, necessario shock per riprendere a crescere. Ma prima di discutere (come si sta facendo) sul come e dove cominciare: cuneo fiscale o irpef, occorrerebbe cominciare dalla spesa, se non si vuole finire in un vicolo cieco. Continuare a drenare risorse dal settore produttivo per convogliarle a quello non produttivo, tagliando gli investimenti che non votano, ‘blocca’ la crescita. Il nostro paese da trent’anni fa manovre restrittive (nel senso ricordato sopra) al di là della disciplina fiscale richiesta da Bruxelles. In altre parole aumenta il deficit pubblico e la spesa con effetti restrittivi quando, invece, ‘austerità’ significa attenzione oltre che al livello, anche alla composizione delle politiche di bilancio. Supporre che un Paese esportatore cresca mettendo i “soldi in tasca alle persone”, come dice la vulgata popolare, è una idea scarafaggio che può passare solo per la testa di persone che non sanno fare di conto e che ignorano le leggi dell’economia. Bisogna agire sui motori che alimentano la crescita dal lato dell’offerta. Non è neanche carità sociale, perché se la ricchezza non cresce saranno i più deboli a pagare il prezzo più alto. Il tema di fondo è quanto costa al sistema produttivo mantenere quello improduttivo. In altri termini se si spende a debito, in capo a chi produce, ad un certo punto il costo di quello supera i presunti benefici della spesa. E la fine che un paese può fare a quel punto è morire di pensioni e di sussidi finché il debito pubblico non sarà più sostenibile.

Marco Boleo




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