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09/05/2023
Quel lontano 9 maggio 1950
L'Europa fa fronte comune per risolvere le questioni più importanti dei nostri giorni e costruire un futuro migliore per tutti gli europei.

La “dichiarazione Schuman” del 9 maggio 1950, l’avvio del processo di integrazione europea è un testo storico fondamentale, non risulta essere un catalogo di problemi, ma sostanzialmente è la rivelazione di un metodo che l’Europa non potrà farsi in una sola volta. Essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino innanzitutto solidarietà di fatto. Come allora misurare tutta la modernità della “dichiarazione Schuman” che vide co-protagonisti altri due grandi statisti: De Gasperi e Adenauer a cui va il merito di aver superato ogni modernità che caratterizzasse di più quella splendida scelta. Un metodo, quello di avanzare attraverso sperimentazioni concrete, passo dopo passo, “con sforzi creativi proporzionali ai pericoli” come base di una storia della difficile integrazione: è tutta qui. Ogni Trattato ha aperto un nuovo ciclo: non con invenzioni, ma attraverso il consolidamento del fare proprio. Quel Trattato ha però rispecchiato una diversa concezione di “unità” di Europa, secondo i vincoli politici del suo tempo. Si sono quindi succedute e sovrapposte tre diverse idee di “unità dell’Unione”. In primo luogo, l’unità come “omogeneità” di discipline e di valori: essa ha avuto il suo simbolo giuridico nella cittadinanza europea, il suo culmine economico nella moneta unica, il suo segno identitario nella Carta dei diritti fondamentali. L’unità, poi, fondata sulla “differenziazione”: che ha avuto la sua massima nei protocolli di Lisbona sul governo ”dal basso” e sul ruolo europeo dei parlamenti nazionali. L’unità, infine, fondata sulla ”effettività”, cioè sui risultati che l’Unione produce per i suoi cittadini. È questa unità che la “Lunga Crisi” ha messo in pericolo. Nell’eurozona, una sorta di dissipazione delle energie unitarie ha reso insopportabile la lentezza e la parzialità dei risultati. C’è stato, certo, un affollarsi di rimedi contro l’emergenza, di concreti strumenti cooperativi che, per la loro audacia, sarebbero stati impensabili prima della crisi. Ma si avverte anche l’oggettivo disordine di questo armamentario.

Soprattutto a causa di una scissione tra regole e istituzioni. Da un lato la Banca centrale che fa tutto quello che le è possibile anche al di fuori di “metodi convenzionali”. Dall’altro lato, regole di buona condotta economica senza istituzionalizzazione: affidate alle mutevoli esecuzioni dei governi nazionali. Nasce da questa incertezza di governo la seduzione populista di un ritorno ad un passato immaginario, di “quando eravamo soli”. Come se fuori (e anche dentro) l’Europa non fosse avvenuto l’irrompere di una globalizzazione senza leggi. Contro cui solo una comunità politica vasta e coesa nella volontà di agire come “insieme sovrano” può opporre una credibile barriera. Ma perché questo sia possibile è ancora valido il ritorno allo “statuto” di Robert Schuman: fare dell’eurozona un “nucleo concreto” con regole e istituzioni proprie. Ciò significa legare assieme, in una “cooperazione permanente strutturata” quanto di “solidarietà di fatto” si è già realizzato nell’eurozona, dal meccanismo di assistenza per la stabilità finanziaria degli Stati all’Unione bancaria. Tutti fatti acquisiti che devono però essere vincolati tra loro e razionalizzati in un legame di governo che ne valorizzi le potenzialità. Certo, questa “cooperazione rafforzata” implica, ancora una volta, un passo indietro nella “sovranità giuridica” degli stati dell’eurozona. Ma sarà anche finalmente un passo in avanti nella loro sovranità “sociale”, se diventeranno coprotagonisti di nuova, effettiva politica economica. Si introdurrà così “il fermento di una comunità più profonda”: così come c’è anche scritto in quel testo base, da dove l’Unione cominciò, adottando una politica monetaria realmente fondata sui dati evitando che la stretta monetaria si rivelasse eccessiva e finisca e che non strozzasse la crescita nei Paesi con un elevato debito pubblico, con una reazione coraggiosa di famiglie e imprese alla crisi da Covid, con performance economiche migliori di altre economie di zona chiuse nel dibattito ciclico tra falchi e colombe sembra smemorato.

La decisa restrizione creditizia per frenare l’inflazione, del 1963 riuscì sì nell’impresa di far tornare in equilibrio la bilancia dei pagamenti, ma avvertì che la politica monetaria restrittiva e il solo obiettivo della stabilità monetaria non bastava: occorreva altresì assicurare oltre il breve termine la stabilità e la crescita dell’economia. Una convinzione che non la abbandoneremo mai. Come la medesima convinzione attuata nel 1992, con la firma al Trattato di Maastricht, lottando – contro i tedeschi in primis – perché ai parametri fissi sul deficit e sul debito in rapporto al Pil fosse preferita la tendenza verso l’obiettivo soglia, riconoscendo la flessibilità necessaria in funzione della crescita economica. L’idea di fondo e il timone di tutto era il benessere concreto delle comunità che doveva essere la stella polare, oltre le alchimie ragionieristiche e le ricette di austerità fini a sé stesse. Nel 2019 al termine del suo mandato alla Bce, Mario Draghi, affermava pure che senza un’incisiva politica fiscale per tutta l’eurozona, questa unione restasse una costruzione fragile, per scongiurare le «gravi ripercussioni sull’attività economica». Il ricordo oggi vuole essere verso lo strabismo dettato da una politica monetaria europea che procede a fari spenti nella notte, senza una politica di bilancio (e un debito) comune che possa orientare gli investimenti per la crescita e senza una vera unione politica lasciare in eredità ai nostri figli: le radici e le ali. Oggi le confermiamo ancora entrambe, l'Europa fa fronte comune per risolvere le questioni più importanti dei nostri giorni e costruire un futuro migliore per tutti gli europei. Questa è la nostra democrazia sempre in azione.

Gilberto Minghetti




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